
[rating=4] Da dove ha origine la menzogna e come sfocia nel male annidato in essa? O meglio “in che punto della storia dell’uomo egli si rende conto che può mentire? Che può alterare il vero. Che può dichiarare il contrario di ciò che è stato detto, fatto o sentito.” Secondo Tolkien “una lingua nasce per raccontare un mito, e il mito è l’essenza stessa di un popolo.” Forse è lì che nasce la menzogna, insieme alla lingua.
Con queste domande ancestrali si apre A.H. di Antonio Latella, andato in scena in prima regionale al Teatro Florida di Firenze: uno spettacolo che indaga l’origine del male, fino al raggiungimento del suo emblema, Adolf Hitler.
La ricerca sul palco di Francesco Manetti, in abito monouso di polipropilene bianco, inizia con tono predicatorio, procedendo verso la Torah ebraica, nello specifico la prima frase della Genesi “in principio Dio creò”, per focalizzarsi sulla seconda lettera dell’ebraico, “bet”, primo vocabolo della Genesi dal quale “nasce tutto il mondo”. La dipinge, come un haiku su di un foglio bianco appeso al fondale. Un quadrato con il lato sinistro mancante ed al centro un punto, che se cancellato “resterebbe il vuoto nella mente di Dio”. Un punto “dittatore”, come la poesia di Rodari, che evoca i baffetti di A.H., senza i quali, cosa ne rimarrebbe?
Ne prende vita una trasformazione graduale dove la riproduzione gestuale del “bet” confluisce nella figura del dittatore, per tramutarsi in cane rabbioso ed infine nel Führer, grazie a una spalmata di Nutella per baffi e capelli.
Molteplici le citazioni, da Il Silmarillion di Tolkien, alla Genesi, al già citato Rodari, ad Anthony and the Johnson, fino a Charlie Chaplin (Il grande dittatore) e al canto “Gam Gam” tratta dal quarto versetto del testo ebraico del Salmo 23. Il numero dei morti dell’olocausto, 5.820.960, viene citato nell’unico gesto poetico dell’intero spettacolo, il lancio in aria del foglio bianco fatto a pezzetti. In scena Manetti trova come fugace compagno di viaggio, un manichino snodabile in legno, da pittori, espressione stereotipata del corpo dell’attore o suprema raffigurazione della fragilità dell’uomo.
Antonio Latella si conferma maestro di ricerca e creatività, attingendo da una tavolozza di trovate sceniche, spesso umoristiche che sciolgono la tensione, vitalizzando la dinamica di un monologo attoriale che in parte risulta comunque lento e frammentario. Con l’arte del puparo muove i fili invisibili che lo collegano al suo attore, mistificandolo proditoriamente in una ziqqurat, per consegnarlo tra le braccia del male.
Interpretazione magistrale di Francesco Manetti: una prova d’attore totale, distinta dal forte impianto corporale. Malleabile come un manichino da artisti, Manetti si lascia attraversare dalla menzogna, dal male, afferrandolo e domandone l’emozione, riflettendola con forza verso la platea. Memorabile l’azione bio meccanica, evocante il “Gioca jouer”, che da sola vale mezzo spettacolo, dove l’attore riproduce un arsenale di armi, dal pugnale al lanciafiamme, simulando gesti di carnefice e vittima.
Grazie ad un pregevole bagaglio tecnico sul movimento, come un serpente, Manetti muta pelle fino a spingersi verso il limite estremo dell’incarnazione del male.
Dove ha origine la menzogna? In teatro, naturalmente.