Nel Castello di Barbablù verrà la morte e avrà la Voce umana

Al Teatro San Carlo di Napoli Krzysztof Warlikowski presenta Il Castello di Barbablù e La voce umana in un'unica narrazione

Si apre, il rilucente sipario, sul mago e la sua assistente, uno spettacolo di prestidigitazione classico, lui in frac, sciarpa di seta bianca e mantello, lei, bionda e stralunata in abito di lamé, compaiono dal nulla colombi e conigli bianchi, perfino un numero di levitazione. No, non c’è trucco non c’è inganno, o meglio c’è e lo accettiamo tutti, che il gioco abbia inizio, qualcuno perfino applaude, l’eterna illusione del teatro si rinnovi, un prologo tutto giocato sui toni allusivi e sfuggenti di una storia antica che diventa, grazie alla magia del palcoscenico, capace di dire qualcosa anche a me che incrocio il mio tempo e il mio spazio.

Avviandoci decisamente verso l’estate, nel maggio odoroso che tuttavia ci riporta, ahimè, verso bradisismi reali e metaforici che ritenevamo superati e giochi stanchi dei soliti illusionisti di turno che propinano trucchi ormai scontati, il Teatro San Carlo riesce a donarci un’altra perla, questa volta composita, in due parti sepimentata come il chicco di grano della parabola evangelica: è del 2015 questa produzione del Opéra di Parigi e del Teatro Real di Madrid, frutto del visionario sortilegio di quel Maestro del Teatro che è Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2021, da sempre impegnato a spingere il pubblico a strappare il fondale di carta della propria vita e scoprire cosa nasconde realmente.

Lo fa, questa volta, mettendo insieme, non semplicemente accostando come di solito si fa con due brevi opere liriche, ma fondendo insieme in un unico racconto due brevi atti unici all’apparenza del tutto disomogenei, il fantasioso e simbolista Castello di Barbablù e il surrealista e avanguardista La voce umana, cercando al loro interno non tanto esteriori somiglianze ma invece indagando – e trovando – sotterranei rivoli che alimentano pensieri, emozioni, vissuti nell’uno e nell’altro, specchi illusori, prismi che rifrangono e reindirizzano luci e ombre.

Béla Bartók compose il suo Castello di Barbablù (A kékszakállú herceg vára) nel 1911: prima e unica opera del musicista ungherese, su libretto di Béla Balázs, è un atto unico che mette in scena una variante in chiave psicologica ed esistenziale della fiaba di Barbablù e delle sue mogli; presentato ad un concorso bandito dal Ministero per le belle arti di Budapest, venne bocciato perché la Commissione lo giudicò irrappresentabile. Sul palcoscenico invece ci arrivò, ma solo nel 1918, per poi rimanere nel limbo fino agli anni Trenta, anche per motivi politici legati al librettista, inviso al regime.

Densa di violenze trattenute, di tensioni che avverti potenti al di sotto dell’eteroclita espressività, nell’alternarsi del buio e della luce, la musica, nell’implacabile e serrata suggestione dell’apertura delle sette porte, segna energiche caratterizzazioni che efficacemente descrivono il percorso dall’oscurità al fulgore, fino alla quinta porta, nell’appassionata narrazione del regno di Barbablù, metafora della terra ungherese, prati di seta, boschi vellutati, lunghi fiumi d’argento, monti oscuri in lontananza e poi di nuovo verso il buio delle tenebre, personificazione della stessa quarta sposa, Judith, simbolicamente identificata con la quarta parte del giorno: è suo il mantello stellato della notte.

Di tutt’altro tenore appare la seconda breve opera, composta da Francis Poulenc, La voce umana (La Voix humaine), opera insolita sottotitolata tragédie lyrique, per Denise Duval, la sua cantante preferita, che incarnò l’unica protagonista del monologo sotto la direzione di Georges Prêtre, con la messa in scena e la scenografia di Jean Cocteau, autore della pièce e del libretto, a Parigi all’Opéra Comique il 6 Febbraio 1959. Come scrisse Fedele D’Amico in occasione della prima italiana a Milano, alla Piccola Scala, il mese successivo, «resta la definizione di una persona umana individuata attraverso una voce fisica e realizzata da una interprete straordinaria: come succedeva ai bei tempi del resto, perché la più gran parte dei grandi operisti scriveva sul modello di cantanti con tanto di nome e di cognome».

Una donna sola in scena che parla dal telefono, la curva melodica abbina tutte le emozioni che lacerano l’anima sua: amore, odio, brutale disperazione, rimpianto, più che all’avanguardia Poulenc sembra ricollegarsi, in apparenza, alle tradizionali donne di Massenet. L’ambiguità tonale esprime lo squilibrio nato da questo dolore inciso nelle fibre dell’opera, secondo Denise Duval, la creatrice del ruolo, amplificando, l’orchestra, l’intensità drammatica propria del canto e assicura unità emotiva con l’uso di leitmotiv, suggerendo, con opportune pause, anche il ruolo dell’amante assente e il tenore delle sue risposte che punteggiano il recitativo tormentato della protagonista: l’opera, sottolinea Poulenc, dovrebbe immergersi nella più grande sensualità orchestrale.

Chiaramente il suo successo si basa sulla dizione e sull’impegno emotivo della cantante, che deve aver sofferto di aspettare invano per poter svolgere questo lavoro di sofferenza vissuta, più che una cantante una tragedienne. È grazie ad una drammaturgia di Christian Longchamp che Krzysztof Warlikowski costruisce la sua narrazione, incursione coinvolgente nell’animo umano, perennemente incerta tra realtà e sogno, tra urgenze del presente e struggimento del ricordo, travolgendo, per lunghi tratti, lo spettatore che siede in platea: certo vorrà pur dire qualcosa se il mago Barbablù, al termine del suo piccolo prologo da teatrino illusionista, sceglie, fra i tanti spettatori, proprio lei seduta in sesta fila, col suo abitino verde elettrico, fluente capigliatura fulva e giacca bianca, Judith, una donna fra tante, chiamata a salire sul palcoscenico e a entrare nel suo Château che ha l’aspetto della platea del Teatro nostro, con tanto di palco reale, vuoto tuttavia, e avvolto in uno spettrale grigiore.

L’amore disfunzionale di Barbablù e di Judith è lo stesso che lega Elle al suo fantomatico compagno, non desta in noi nessuna sorpresa vederlo comparire, alla fine, clone dello stesso protagonista, insanguinato e morente, l’amor tossico che imprigiona la riluttante Judith nel nero manto regale di regina della notte è lo stesso che avviluppa la tormentata Elle aggrappata con tutte le sue forze ad un telefono che non c’è più, si parla in viva voce, ormai, inseguendo il filo di un discorso che la perdita di campo più volte disturba, sospende, ritma, sottolinea.

Un unico itinerario, dunque, non interrotto nemmeno dall’intervallo, in una rievocazione che si nutre delle manie ossessive del tempo nostro ma che si riverbera in un continuo rinvio a un insieme (in)definito di citazioni, suggestioni, risonanze di simboli e icone, attraverso la rappresentazione – teatrale, com’è ovvio – di due momenti clou della storia d’amore di un uomo e una donna, il suo inizio e la sua fine, l’unione e la separazione, l’aprirsi dell’anima attraverso la metafora delle sette porte e il suo definitivo chiudersi segnato da un non metaforico colpo di pistola.

Ma anche, probabilmente, dell’incontro dell’uomo con l’ultima donna della sua vita, che, ammantata del buio stellato della notte, si aggiungerà alle altre che ha amato, forse una madre, all’alba del vivere, una moglie, nell’affocato meriggio della maturità, un’amante, nella sera che imbrunisce fattezze e sentimenti: l’ultima, Judith – ma anche Elle – segnerà per lui la fine, non solo dell’amore, ma anche della vita: verrà la morte e avrà i tuoi occhi e la tua voce, vien da dire con le parole di un altro poeta del Secolo breve, in un rapido chiudersi definitivo della luce.

È un percorso che si muove attraverso la scena, disegnata da Malgorzata Szczesniak – che firma anche gli sgargianti costumi – del tutto spoglia, se si eccettua la presenza di un gran divano bianco sulla sinistra e di una credenza anni venti a destra, sì da lasciar spazio, fino a scendere fin dentro le profondità dell’anima, alle sette camere che si nascondono dietro le sette porte, tutte segnate dal sangue, che è, certo, segnale di morte ma anche, contraddittoriamente, di estrema vitalità: è dalla prima stanza, quelle delle torture, che il regista arreda come una stanza da bagno che trabocca sangue, che fa capolino Elle, impugnando una pistola, mentre si conclude la prima opera, guadagnando il proscenio e tentando la sua telefonata.

Lungo questo percorso simboli, icone, immagini, che persistono nella memoria quando tutto è finito, prima di tutto i video – a cura di Denis Guéguin – de La Belle et la Bête, il film del 1946 diretto significativamente da Jean Cocteau, lo stesso autore de La voce umana: immagini sgranate in un ossessivo bianco e nero che ci ricordano un’altra fiaba – per tanti aspetti simile al Castello di Barbablù – alla ricerca del mostro che c’è in noi – o, in alternativa, dello splendore celato dietro la maschera implacabile della malvagità.

Poi la palla di vetro con la neve – il regno splendido e immenso di Barbablù nascosto nella quinta stanza – del tutto simile a quella che il vecchio Citizen Kane tiene in mano nella sequenza più famosa della storia del cinema: simbolo del delirio d’onnipotenza cui può arrivare l’uomo ma, al tempo stesso, della sua caducità; e il bambino, chiuso nell’oscurità senza tempo dietro la sesta porta altri non è che lui stesso, il padrone del Castello e dell’anima sua, il suo Io Bambino – direbbe Eric Berne – tenuto ermeticamente sotto chiave perché non fugga, certo, ma pure perché si ripari dalle cattiverie del mondo: contraddizioni patenti che caratterizzano il nostro vivere, che inevitabilmente esplodono nel dramma finale di Elle chiusa asfitticamente nella sua elegante camera d’albergo che, tetra, sembra la stanza di un assassino.

Di primissimo piano gli interpreti, a cominciare da Edward Gardner che con autorevolezza e senza inutile enfasi dirige l’Orchestra del Teatro San Carlo in stato di grazia: è lui senz’altro l’autentico Mago della serata che, senza esuberi d’illusione ma, anzi, con misura perfetta riesce a portarci per mano prima nell’apparenza dorata del mondo di Judith e Barbablù, facendo emergere dalla trama densa e complessa fantasmi di armonia, sfocature acquose e insieme ruvide, che si sfanno in fini trasparenze per poi tornare allo stato solido di cristallizzazione, in seguito accompagnando con discrezione Elle nella sua lunga traversata del deserto, riuscendo perfettamente a render ciò che l’autore voleva fosse, perfetto contrappunto della voce umana, traducendo in musica la frattura che progressivamente si viene descrivendo, che è alla base della definizione stessa di tragédie lyrique.

Il Barbablù di John Relyea ci regala, grazie a un registro molto basso che lo colloca decisamente in un mondo oscuro e buio, una perfetta caratterizzazione, che spesso ricorre con autorità e potente gravità al profilo pentatonico del canto popolare ungherese, sapendosi man mano aprire a frasi melodiche decisamene più cantabili, che trovano il loro culmine all’apertura della quinta porta: perennemente in bilico ci è apparsa, l’interpretazione del basso canadese, tra il velluto del colore di Filippo e la tonalità slava di Boris, dispiegandosi perfino in accenti quasi da opera italiana.

Che dire di Elīna Garanča se non che si conferma artista eccelsa dall’impeccabile qualità del canto, evidente e sicura in ogni momento? L’ottimo fraseggio, l’espressione curata in ogni minimo dettaglio, la cura e la sottolineatura di ogni possibile sfumatura delle emozioni fanno sì che arrivi ad ogni persona seduta in platea l’intimo sentire di un personaggio la cui parabola viene sviluppata e descritta in ogni più trascurabile particolare, donando alla sua Judith accenti credibili d’appassionata cantabilità, soprattutto nella prima parte, mentre nella seconda manifesta sospetti e gelosia ricorrendo a frasi nervose, che si frangono e si spezzano nell’incertezza sospesa del dubbio.

E poi c’è Lei, Elle, Barbara Hannigan, che in scena porta l’instabile equilibrio sui tacchi altissimi – per cui spesso cade a terra – sempre ripresa da telecamere che ne giganteggiano l’immagine – proiettando il suo enorme talento e la sua devastante disperazione sul fondo del palcoscenico, restituendocela in piedi o seduta, distesa a terra o rannicchiata, in obbedienza al libretto che la vuole in piedi, seduta, di schiena, di faccia, di profilo, in ginocchio, con la testa abbassata, appoggiata alla spalliera, la voce sempre di travolgente intensità, forte e lucida o preda dell’angoscia sgomenta del più cupo smarrimento, un’ora al telefono senza telefono, di fatto vox clamantis in deserto, esprimendo con la voce, la presenza scenica, l’indiscusso fascino, tutta la complessità di questo personaggio unico.

La scrittura di Poulenc, l’essenziale declamato che solo a tratti, quasi faticosamente e con riluttanza, si alza in canto, diventa, grazie a questa straordinaria interprete, alla perfetta dizione, alla cura del fraseggio, alla sempre controllata padronanza della voce e del gesto, perfetto esempio di recitare in musica che, sempre, dovrebbe esser caratteristica dell’arte lirica.

Una gran serata, dunque, salutata dal pubblico una volta tanto senza contestazioni, in nome di una forma artistica che – come sottolinea Warlikowski nella significativa intervista raccolta da Lucia Licciardi, inserita nel libretto di sala – non è entertainment, vuole dire qualcosa che si deve capire, dare un messaggio, svegliare le coscienze, non è mai una cosa lieta, per quelle c’è il circo. Mi pare che sia molto bello, questo, perché vero, noi abbiamo scordato, nella temperie berlusconiana che ci ha investito e di cui ancora sentiamo gli effetti, questo concetto dell’arte come messaggio, anzi per troppo tempo abbiamo considerato con sufficienza parole e pensieri come questi, in nome di una concezione edonista e volgare della vita e dell’arte. Forse è tempo, anzi ne sono certo, di cambiare.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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nel-castello-di-barbablu-verra-la-morte-e-avra-la-voce-umanaIl Castello di Barbablù / La voce umana <br>Direttore, Edward Gardner <br>Regia, Krzysztof Warlikowski <br>Scene e Costumi, Małgorzata Szczęśniak <br>Luci, Felice Ross <br>Video, Denis Guéguin <br>Coreografia, Claude Bardouil <br>Béla Bartók <br>Il Castello di Barbablù <br>Il Duca Barbablù, John Relyea <br>Judith, Elīna Garanča <br>Francis Poulenc <br>La voce umana <br>Elle, Barbara Hannigan <br>Lui, Giuseppe Ciccarelli <br>Orchestra del Teatro di San Carlo <br>Produzione del Opéra di Parigi e del Teatro Real di Madrid <br>Durata: 1 ora e 55 minuti circa, senza intervallo <br>Opere in Ungherese e in Francese con sovratitoli in Italiano e in Inglese <br>In scena dal 24 al 30 maggio 2024 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 24 maggio 2024