
Se ne doveva render conto anche Gioachino Rossini, in quell’ormai lontano 1820, più di duecento anni or sono: tra storia e memoria c’è una bella differenza, ciò che si mette in scena, anche se ispirato alla storia – che si basa su quel che viene ricostruito grazie a documenti inoppugnabili – spesso meglio si raccorda alla memoria, al ricordo, cioè, che le persone hanno di quel particolare evento, alla risonanza emotiva che suscita in loro, fino a diventare parte di noi stessi, a influenzare i nostri pensieri e i nostri atti, a vivere una vita nuova attraverso di noi, spesso inconsapevoli. Qui, a Napoli, al Teatro San Carlo, di cui il musicista pesarese era all’epoca direttore musicale, si mette in scena, come due secoli fa, un’opera molto particolare che, quasi inevitabilmente, rimase incompresa: fu, infatti, in quell’anno che Gioachino Rossini, poco prima di concludere la sua parabola portentosa in questo vetusto teatro, compose e fece mettere in scena il Maometto Secondo, quasi a coronamento della sua esperienza napoletana.
Opera per certi versi sperimentale, obbediva alla necessità del musicista pesarese di trovare, in quel periodo, elementi di innovazione che potessero cambiare radicalmente il modo d’intendere il teatro in musica, perché più compiutamente si potessero realizzare i contenuti drammatici e teatrali, cercando allora, e in questo Maometto Secondo è di certo la sua più ambiziosa creatura, di superare molti degli standard formali dell’opera italiana, che del resto conosceva bene, espandendo alcune forme dall’interno: come dice uno specialista illuminato come Philip Gossett, in nessun’altra opera italiana di Rossini le convenzioni che regolano la disposizione e la configurazione formale dei pezzi sono trattate con altrettanta libertà e nel contempo solidamente saldate allo svolgimento del dramma come in Maometto Secondo; naturalmente, e di questo il musicista era perfettamente cosciente, l’opera che ne risultò era molto avanzata per i tempi e dunque destinata alla freddezza, se non all’insuccesso, anche per il tragico finale, il massacro di Negroponte, l’antica isola di Eubea, possedimento veneziano che fu invaso ed espugnato da Maometto II, già conquistatore di Costantinopoli e aspirante padrone del mondo.
Dopo la partenza da Napoli, in ogni caso, Rossini produsse una nuova versione dell’opera, che andò in scena a Venezia nel 1822, con alcune modifiche tra cui un lieto fine per sostituire quello tragico dell’originale – la storia veniva, così, ancor più forzata da una immaginaria memoria – ma anche in questo caso il pubblico non mostrò di apprezzare particolarmente. Rossini comunque, convinto della propria opera, trasferitosi a Parigi continuò a lavorare sul Maometto Secondo, fino a trasformarlo nel Grand operà che tanto andava di moda a Parigi in quegli anni: nel 1826 nacque perciò Le siège de Corinthe, che utilizzava gran parte della musica del Maometto Secondo ma su un libretto nuovo di Luigi Balocchi e Alexandre Soumet. Solo la Rossini renaissance poté riportare alla luce questo vero capolavoro, rimesso in scena per la prima volta nel 1985 grazie a una edizione critica curata da Claudio Scimone ed edita dalla Fondazione Rossini in collaborazione con la Ricordi Spa.
Il Teatro San Carlo ha affidato la rappresentazione del Maometto Secondo alla regia di Calixto Bieito, dissacrante regista catalano che negli ultimi anni si è guadagnato una straordinaria reputazione come “il Quentin Tarantino dell’opera”. “, e il “regista più esagerato” d’Europa, le sue vivaci produzioni hanno elettrizzato il pubblico e sfidato la critica. Orgogliosamente catalano, ha diretto dal 1999 al 2011 il teatro più antico di Barcellona, il bellissimo Teatre Romea nel cuore del barrio gotico appena fuori dalle Ramblas, mentre dal 2017 è direttore artistico del Teatro Arriaga di Bilbao. Il percorso drammaturgico di Calixto Bieito per Maometto Secondo si muove, allora, sul fil rouge di una sottile, pervasiva ironia che mette alla berlina gli umani egoismi, il gioco spesso infantile della guerra, le smanie conquistatrici degli eterni caporali, la condizione della donna, l’insulsa retorica dei futili eroismi, e tutto ciò riesce a far diventare terribilmente attuale un melò scritto duecento anni fa, a ulteriore riprova della ostinata immutabilità, nel tempo, della banalità stupefacente del male.
Vediamo così comparire, sulla scena disegnata da Anna Kirsch – spazio vuoto e bianco della memoria, solo cavalli di Frisia, a terra, testimonianza muta ed eloquente d’inospitale terreno di guerra – una Anna stralunata che si aggira silente e perplessa guardando sgomenta il nulla che la circonda, prima che tutto cominci: è la sua memoria, che vedremo farsi carne e sangue tra poco, manchevoli risonanze e incompiute, uno sguardo femminile che attraversa la storia senza ricomporla in perfetta sintesi, dandocene invece, con tutto il suo doloroso carico emotivo e straniante, un impreciso ma sanguinante e palpitante ricordo, una soggettiva visione, come, per l’appunto, è sempre la memoria. Vediamo così, quando la musica finalmente comincia, i veneti guerrieri farsi avanti, lentamente avanzare dal fondo: un popolo di civili, che si presenta a noi con i dimessi abiti di tutti i giorni, insieme, ciascuno, ad un attrezzo, un oggetto, un simbolo che lo caratterizza, un’ascia per il carpentiere, un ombrello per la pioggia, un carrello variopinto per vender mercanzia, tanti anziani che si appoggiano al bastone o al deambulatore.
No, non è per niente eroico il campionario umano che si dispiega sotto i nostri occhi, l’ironia dello sguardo mitiga la pietà, è, questa, la cosiddetta popolazione civile che, attaccata da eserciti invasori, tante volte viene sacrificata, rappresentando il danno collaterale di guerre non cercate e non volute, come spesso ci viene raccontato dalle cronache, un popolo che vuol difendersi pur essendo, magari, già minato da un morbo struggitor, così ci vien detto dal loro capo, Paolo Erisso, che evidentemente di quel morbo soffre ancora dei postumi, visto che si presenta a noi con tanto di carrello per la flebo e di inalatore per l’ossigeno. Più tardi vedremo sul palcoscenico anche il contraltare eguale e simmetrico di quei cittadini, la popolazione femminile, che si presenta in modo del tutto analogo, molte carrozzine con neonati a spasso, biciclette, tanti giochi e peluche per i bambini, un’arpa in scena accompagna – con grande poesia – il loro canto preoccupato: la situazione precipita, tutto già intorno è orror, incendio e morte.
Perché, lo sappiamo, in quest’opera così particolare per il primo Ottocento italiano – in cui ancora son percepibili incertezze tra il neoclassicismo dello stile Impero e le prorompenti avvisaglie di ciò che deriverà dallo Sturm und Drang, un ancora acerbo Romanticismo – non c’è gran posto per l’amore, Rossini scelse limpidamente e consapevolmente una storia di guerra efferata ed in qualche modo esemplare, per provarsi oltre quelli che erano stati fino ad allora i suoi limiti, la comfort zone di giovane e scanzonato musicista, forzando oltre i confini canonici di quella che era la musica colta dell’epoca, producendosi invece in molto recitativo e poche arie chiuse, Oper und Drama ante litteram, il genio di Lipsia ancora bambino, la musica dell’avvenire, per l’appunto, in mente Dei.
E così vediamo i prodi seguaci di Maometto entrare in scena, loro sì, in veste di guerrieri, tutti in divise militari, pronti a gettarsi sull’avversa città nel sangue sommersa, si profila un massacro come tanti ne ha visti la storia, come tanti la nostra imperfetta memoria ne riassapora, guardandolo prender forma sulla scena, il ricordo dal sapore amaro e nauseante: giocano alla guerra, quegli acerbi soldati, portano ancora con sé una metaforica busta piena dei loro ricordi infantili, li serberanno sui loro cuori, alcuni li appenderanno – per voto, come alle fronde dei salici le cetre un altro poeta – ai carri di Frisia, guardando attoniti come oscillavano lievi al triste vento, altri, come Selimo alla fine del primo atto, per effetto di rabbia inutile, infantile, come a volta scatena il sangue e la guerra, metterà quei ricordi in un passeggino vuoto e li tempesterà di pugni, velenoso accanimento contro se stesso e i propri più riposti ideali perduti.
Altre volte il racconto si fa più ironico e leggero, soprattutto grazie al Coro, guidato per l’occasione dal Maestro Aggiunto Vincenzo Caruso, irridendo al linguaggio aulico del libretto di Cesare Della Valle e mettendo nel contempo in evidenza le non comuni doti attoriali dei coristi, soprattutto quando ben guidati da un ottimo regista: così l’invocazione al cielo alla fine del primo atto, perché porga ristoro a tanto dolor si traduce, da parte del Coro delle Donne nel gesto di spargere una crema lenitiva sulle proprie facce o su quelle dei soldati oppure, nel successivo primo quadro del secondo atto, quando le donzelle musulmane – qui la costumista Ingo Krügler non ha resistito alla tentazione, vestendole di nero nel più puro stile della tradizione sciita, pur senza velo – cantando come, diventato bianco il crine, cangerem, cangiando aspetto, tirano fuori dalla borsetta che portano a tracolla un pettine e iniziano a ravviarsi i capelli: di episodi come questo ce ne sono in effetti tantissimi e in qualche modo alleviano la tensione, altrimenti molto alta, come quando la morte diventa tutt’uno con la vita, le ceneri della madre di Anna vengono portate in scena all’interno di un sudario, sparse sulla terra e al vento, primo monito del sangue che tra poco scorrerà copioso, le ritroveremo alla fine di questa storia atroce, testimoni mute di un dolore che è rovina ma pure consolazione, disperazione ma pure preghiera.
Ci mostra ancora, questo doloroso itinerario, condotti per mano dalla memoria di Anna messa in scena dal regista, di come il gioco eterno della guerra accentui le ingiustizie perpetrate sulle donne, costrette a impossibili scelte tra amori rivelatisi ingannevoli, ricatti affettivi paterni, inusitate pressioni da parte d’un pervasivo potere maschile che eternamente aggiunge violenza a violenza sognando, per loro, un eterno, tormentoso, immutato futuro in cui possono solo trasmutare in sante o puttane. Alla fine, per la conclusione dell’opera, tutto sta per compiersi, la scena si svolge, come da libretto, nella cripta della chiesa dove riposano i morti nei loro sudari, ma è come se il mondo intero ci appaia a questo punto avvolto in un unico, enorme sudario nero che avvolga uomini e cose, annuncio della morte prossima ventura, s’innalzano i cavalli di Frisia, a darci appunto l’impressione di esser sottoterra, ma il movimento verso l’alto, che trascina con sé brandelli dell’enorme telo funebre che tappezza l’universo, è di grande suggestione, gli strumenti e simboli della guerra e della morte trasmutano sotto i nostri occhi, illuminati come sono spiccano ora come enormi stelle a illuminare un cielo per altri versi completamente buio e immoto, a terra le ceneri della madre di Anna serviranno da viatico per un simbolico “matrimonio” della donna con Calbo, anticamera solo della morte.
Così, quando tutto sarò compiuto, il massacro perpetrato, la morte celebrata la sua vittoria, sceglie, il regista, di non mostrarci il consapevole suicidio di Anna, ormai unica via di fuga: tra lo scorno di Maometto, la rabbia dei soldati, il dolore delle donne, si siede, Anna, al centro del boccascena, sul limitare del golfo mistico, ci guarda, ci fissa, osserva ognuno di noi seduto inane sulla sua poltroncina rossa, rompendo la quarta parete, lasciandosi alle spalle tutto quel sangue e quella morte, sconfinando nel mondo dell’aldiqua, diventando, alla fine, con noi, una di noi, chiudendo il cerchio della memoria e del dolore.
Questo immaginario viaggio sul filo della memoria di Anna si compie, certamente, grazie alla musica di Rossini – la sua opera veramente qui risorge dopo due secoli – e per merito degli straordinari interpreti che l’hanno per noi e prima di noi studiata, amata, compresa, eseguita a perfezione, primo fra tutti il direttore Michele Mariotti, di cui ben conosciamo le eccelse doti interpretative che ne fanno uno dei migliori direttori attualmente in attività: alla guida di una ormai superba Orchestra del nostro Teatro di San Carlo riesce, con la sola musica, a restituirci un mondo che credevamo perduto e che invece ha la capacità di tornare a vivere e a suscitare il nostro interesse, che non diminuisce per tutta la durata delle tre ore e mezza dello spettacolo. In tal modo anche un’opera ritenuta minore, caduta alla prima e poi in vario modo e con non eccelsi risultati rimaneggiata più e più volte, assurge emblematicamente, inopinatamente, sorprendentemente a rappresentare il nostro doloroso quotidiano: esattamente questo pensavo ieri sera, mentre, a pochi passi da lui lo sentivo e lo vedevo dirigere la stessa musica che qui, proprio in questa Sala, era risuonata più di due secoli fa, uno straordinario corto circuito temporale, l’intera platea del San Carlo trasformata in capsula del tempo, li, alla mia destra, il palco da cui l’Autore assisteva alle rappresentazioni.
Nel ruolo eponimo un eccezionale Roberto Tagliavini, sia per le eccelse doti strettamente musicali, sia per quelle drammaturgiche, di certo non inferiori: spicca, il suo Maometto, perché la bellissima voce piena, ricca di armonici, morbida, dal perfetto fraseggio riesce a strappare un lunghissimo applauso al pubblico che così lo ringrazia per la stupenda interpretazione di Sorgete, in sì bel giorno; e poi perché costruisce scena dopo scena un personaggio pressoché perfetto, da finto intellettuale impegnato, con tanto di elegante spezzato, occhialini alla Gramsci e barbetta professorale, che invece nasconde, come una piaga purulenta, l’egolatria pervertita che tanto bene conosciamo dalla storia e dalla cronaca, intento nell’infinita e defaticante scalata per sottomettere il mondo, con cui metaforicamente gioca, vezzeggiandolo e abbracciandolo fino a farsene un mantello, citazione chapliniana di un dittatorello qualunque anche se poi però, per rabbia, non esita a strapparlo in mille pezzi, quel mondo così agognato e oggetto di tanto desiderio. Desiderio che ha pure, e bruciante, nei confronti di Anna e che lo porta a non esitare per cercare di sfruttare la posizione di enorme potere che la situazione gli consente momentaneamente, naufragando il tutto in un goffo e miserabile tentativo di pecoreccio approccio carnale, confermando ciò che scrisse, di questo personaggio, in una preziosa recensione dell’epoca, Luigi Prividali, risultando null’altro che un nojoso millantatore, che minacciando senza punire, e supplicando senza ottenere, non sa farsi né temere né amare.
Paolo Erisso è Dmitry Korchak, grande scuola rossiniana, tenore abituato ai ruoli ben più leggeri da primo amoroso e che qui riesce, tuttavia, a rendere a perfezione un certo tipo di padre che poi vedremo, tra qualche anno, trovar grande fortuna e sviluppo nei personaggi di un musicista nato nella campagna tra Parma e Piacenza, che all’epoca era ancora bambino ma che saprà minutamente approfondire il personaggio in una galleria multiforme di padri possessivi, anaffettivi, egoisti, pronti a chiedere alle figlie enormi sacrifici senza batter ciglio.
Il Calbo di Varduhi Abrahamyan sceglie di essere stereotipo del guerriero eroico, lo vediamo in ogni occasione sfoderare pose statuarie da consumato militare, sfoggiando una non comune retorica nella definizione di un personaggio, per com’è scritto, abbastanza opaco. Ciò con toglie che regista e interprete riescono a cavarne molto in più, il primo rendendolo protagonista della “traslazione delle ceneri” della madre di Anna sul terreno della battaglia, la seconda affrontando – e vincendo – la gran prova di Non temer, d’un basso affetto, cantata così come l’Autore l’ha fatta, esame improbo e terribile che supera a pieni voti.
C’è poi Anna, interprete una stupenda e giovanissima Vasilisa Berzhanskaya: è nel suo nome che il regista racconta tutta la storia, è grazie a lei che tutto il dolore, tutto il sangue, tutti gli ideali infranti vengono alla fine ricomposti, riassunti, come per incanto – il miracolo che solo grazie alla musica può avvenire – nell’aria finale Sí, ferite: il chieggo, il merto, che in qualche modo è simbolo e sintesi di questa spericolata operazione che il compositore pesarese tentò tanti anni fa: in qualche modo non banale e non scontato riassume in sé ciò che già possedeva e ciò che desiderava per il futuro, similmente a quel padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Possiede, il soprano russo, evidentemente, nonostante la giovane età, il segreto di tanta sapienza, la giusta chiave interpretativa che la rende così idonea a sapersi calare in una parte difficile e non sempre di immediata comprensione come questa.
Qui finirebbe la recensione e qui mi fermerei anch’io se riuscissi ad esimermi dal riferire – e commentare – ciò che è successo alla prima, anzi alla sostituta prima, visto che, a causa dello sciopero nazionale dei lavoratori degli enti lirici è saltata la prevista recita del 23 ottobre: molti e prolungati applausi, cosa che del resto è successo pure ieri sera, hanno accolto gli interpreti, il Coro, l’Orchestra e i rispettivi Direttori. Invece, a quella prima, il regista è stato sonoramente e lungamente fischiato – così riferiscono testimoni – da una buona parte del pubblico, non contento di certe scelte registiche, giudicate incomprensibili, non immediatamente leggibili dal senso comune.
Sommessamente non posso non notare come un’opera d’arte – e l’opera lirica è opera d’arte – risulti comunque sempre di problematica lettura, porti con sé le stigmate di una nativa complessa fattura, altrimenti non si spiegherebbero i tanti artisti e le tante opere incomprese che la storia ci ha consegnato, rifiutate ad una prima superficiale lettura e che il tempo ha rivalutato: e il melodramma, per sua connaturata indole, è musica, poesia, teatro intrinsecamente e indelebilmente fuse in un unicum che non si può smembrare nelle sue parti native, pena la perdita irreparabile della sua stessa essenza. Ed è appunto il teatro, il modo in cui l’opera vive sulla scena, a diventare il compito del regista, che ovviamente lo fa con una sensibilità e una cultura che sono contemporanee, diverse, per ciò stesso, nella maggior parte dei casi, da quelle in cui fu composta l’opera: a lui il compito, dunque, di tradurre in qualche modo il teatro dell’epoca in uno contemporaneo più fruibile alla nostra mentalità, dal nostro quotidiano.
E tradurre è già, in qualche modo, tradire, implica giocoforza sempre un rimaneggiamento, una scelta, una cernita: sta poi al pubblico, naturalmente, giudicare se quella particolare scelta registica abbia saputo tradurre quell’opera vetusta in qualcosa che possa dire una parola anche a me che vivo l’oggi, senza troppo tradire se stessa. Lontano ci porterebbe, allora, il discorso, anche tenendo conto di come l’arte contemporanea spesso non ammetta un unico significato, ma diversi e perfino contrastanti tra loro, a seconda dello sguardo dello spettatore, tutti, probabilmente, giusti e senz’altro condivisibili, a patto che si parta da una visione corretta di ciò che abbraccia il nostro sguardo e che, con umiltà, si sia pronti ad accettare anche di andare oltre i nostri usati sentieri e intraprendere, chissà, come Rossini due secoli fa, avventurosi viaggi oltre il consueto.