
Post-industriale, post-atomica, post-progressista, post-paleo-archeologica o semplicemente: post-AIDA?
“Post-icipata” di cento anni rispetto la prima volta di Aida in Arena, nel 2013 abbiamo avuto una versione di Aida post-Aida curata nella messa in scena da Carlus Padrissa e da Alex Ollé due dei sei direttori artistici de La Fura dels Baus. Piace o non piace questa Aida? A giudicare dagli scarsi numeri ottenuti nel 2013 non piacque, a distanza di quattro anni però qualcosa sta cambiando, segno che si sta lavorando verso una direzione nuova, spettacolare e forse finalmente post-areniana. Sicuramente è uno spettacolo che divide: piace o disgusta. E’ uno spettacolo che sin dalla sua anticipazione televisiva sotto gli occhi di una ben visibilmente perplessa Antonella Clerici ha fatto discutere, spiazzando poi il pubblico e la critica presenti alle recite del 2013.
In poche parole, è uno spettacolo che fa cultura, ed è questa la sua forza.
La visione avveniristica nel corso della quale ci accompagnano i due artisti de La Fura dels Baus ci porta avanti centinaia d’anni nel futuro, precisamente nel momento in cui una spedizione archeologica ritrova una grande statua raffigurante Aida e Radames nel loro ultimo abbraccio. Nel corso del breve preludio questa statua viene segata a pezzi e trasportata in cassoni verso un occidente imprecisato nel futuro. Da qui, le vicende dei due amanti protagonisti vengono illustrate al pubblico, filtrandone il racconto con gli occhi di questa “nuova” civiltà futura. Questo dà sicuramente il pretesto ai due artisti spagnoli di sgravare Aida dai soliti luoghi comuni che siamo abituati a vedere in questo titolo, e non solo in arena. Sulla carta viene fatta piazza pulita di sfingi, obelischi, geroglifici e divinità dando vita ad una vera e propria iconoclastia di Aida. Funziona? A metà, basta non avere la pretesa di chiedere a questo spettacolo di essere una riscrittura dell’opera verdiana, come contrariamente succede nel Nabucco presentato nella versione di questo festival areniano. Più che una vera idea interpretativa si è trattato semplicemente di cambiare la forma alle vecchie cose, più un restyling avanguardista quindi: gli obelischi diventano i pali di una gru, restano i cani “Anubi” e restano gli arieti, ci sono persino i flabelli tanto cari a Franco Zeffirelli che cambiano solo i connotati.
Questo e ben lungi dal voler essere una stroncatura perché lo spettacolo funziona benissimo, ha momenti di rara suggestione ed è un ottimo esempio di scuola scenotecnica e teatro: le masse ed i solisti sono gestiti al meglio rendendolo completo in ogni suo aspetto. Tutto è curato in modo minuzioso e i rapporti tra i personaggi e le tensioni religiose e politiche sottese nel testo verdiano sono perfettamente rese. Tutti gli artisti hanno capito lo spettacolo e riescono a farlo loro, convincendo anche il pubblico che via via durante la visione si fa prendere nella tela narrativa. Molto ben riuscita, ad esempio, la scena dell’investitura di Radames in cui spalti e platea sono invasi da figuranti con piccole lune illuminate creando nel buio un effetto straniante. Affascinanti sono poi le coreografie sospese di Valentina Carrasco, la bellissima scena del Nilo del terzo atto e magnifico l’utilizzo del corpo centrale della scenografica che lungo il corso dell’opera prende vita e si inclina opprimendo prima Amneris nella scena del giudizio e schiacciando i due protagonisti piegandosi completamente su loro e seppellendoli vivi alla fine. Impressionante il deserto ricreato sugli spalti, che grazie alle luci di Paolo Mazzon evoca la Giordania.
Regia e Scene, di Rolando Olbeter, sono perfettamente in sintonia creando un Egitto parallelo, non può dirsi altrettanto dei costumi di Chu Uroz che specie per protagonisti non hanno lo stesso carattere innovativo tradendo così la linea temporale tracciata dalla regia frustrandone la completa comprensione. Tutto molto bene quindi ma ammetto che da La Fura dels Baus avrei preferito più coraggio nell’osare, anche si tratta di Arena di Verona.
La direzione di Jiulian Kovatchev era serrata, non indugiando nei gorghi del Nilo creava una bella tensione narrativa senza concessioni né autocompiacimenti: nemmeno nel trionfo. L’orchestra tuttavia non risponde molto bene e risulta spenta .
Ottima nel complesso la prova dei cantanti. L’Aida di Amarilli Nizza è una ragazza giovane, appassionata sensuale e fragile. Il grande controllo tecnico permette alla signora Nizza di affrontare un ruolo forse troppo estremo per lei. Riesce infatti ad adattare la propria duttile vocalità senza forzare il registro di petto in modo innaturale, mantiene la voce sempre sul fiato e l’emissione sempre in maschera, una bellissima prova di canto all’italiana. Certo il personaggio è pesantissimo e pur privilegiandone il lato lirico nel terzo e quarto atto si fanno sentire le fatiche dei primi due: l’intonazione non sempre è perfetta sintomo chiaro di un affaticamento. Bellissima la presenza scenica e profonda la sintesi col personaggio.
Vocalmente ottimo pure il tenore Carlo Ventre nel ruolo di Radames, voce scura e potente, convince col proprio piglio eroico. Gli acuti sono sempre squillanti e il celebre “Celeste Aida” non delude affatto.
Perfetta e sopra tutti l’Amneris di Violeta Urmana, voce bruna e ampissima dispiega un canto magistrale che supera ogni più impervio scoglio della parte senza problemi. Ogni frase, ogni parola di Amneris è “vera”, è detta con l’enfasi giusta senza mai diventare grottesca ma al contempo mantenendo quella regalità che ci si aspetta da una principessa d’Egitto.
Urmana crea un personaggio femminile, carico di sensualità e la cui perfidia riesce a restare sottopelle sempre, non si espone mai nemmeno dei momenti più scoperti creando una vera macchina del male pur restando “innocente”. Affronta poi gli oltre trenta minuti della scena del giudizio battendosi come una leonessa. Impressionante infatti la forza sia dei suoi silenzi sia dei suoi acuti, regalando così al pubblico il punto più alto della serata e dando al proprio personaggio il valore di protagonista, quale in effetti è.
L’Amonsro di Boris Statsenko ha voce è molto potente e ottima la dizione peccato peccato che il modo di porgerla sia sempre alquanto sopra le righe e rischia di scadere nella macchietta: decisamente fuori luogo in un contesto come questo.
Ottime le parti dei bassi sostenute da Denyan Vatchkov in quella del Re e Giorgio Giuseppini come Ramfis. Ottima ed evocativa anche Tamta Tarieli nella sacerdotessa mentre in difficoltà ci parso nella sua difficile e breve parte il messaggero di Antonello Ceron.
Coro dell’Arena di Verona all’altezza della propria fama sotto la guida di Vito Lombardi. Ottimo il contributo del corpo di ballo e di tutti i figuranti alla buona riuscita dello spettacolo.
Alla fine un pubblico entusiasta ha accolto tutti gli artisti con meritate ovazioni per i protagonisti.