
C’è una piattaforma circolare, in scena, su cui si muovono tre donne incinte. I loro corpi, bagnati da una luce blu acqua, disegnano gesti ampi e stilizzati, gonfi e cadenzati. Si piegano, si cercano, si respingono. Sembrano bambine colte nell’atto di giocare. A rafforzare questa impressione è la giostrina sospesa sopra di loro che, come in una cameretta infantile, fa ruotare in tondo oggetti bidimensionali: una macchina, delle casette, farfalle, un sole, un cavalluccio marino. Il suono di un pianoforte accompagna il quadro, insistendo su note singole senza mai risolversi, ripetendosi in un moto incessante e vorticoso. È una spirale sonora che genera trepidazione, attesa, eccitazione: qualcosa che pulsa e scalcia per uscire.
I cuori battono nelle uova, scritto da Alberto Fumagalli e diretto insieme a Ludovica D’Auria, è un gioco molto serio. Tre donne. Tre pance. Tre voci che si incontrano, si contraddicono e si scontrano su come si dovrebbe — o si potrebbe — attraversare quel passaggio esistenziale che è la maternità. Una odia la gravidanza: vomita, non dorme, si sente invasa. Una gioca e ride, come se il bambino non esistesse davvero. La terza è ossessionata dalla responsabilità che cresce dentro di lei: vuole proteggere quella vita con tutte le sue forze, anche contro il mondo.

Le attrici (Elena Ferri, Matilda Farrington, Grazia Nazzaro) a tratti sembrano bambine che giocano a fare le madri, a tratti, madri che non sanno come smettere di essere bambine. I loro corpi si muovono come in un rito: solenni, carichi di una sacralità che non ha nulla di religioso ma tutto di corporeo. Ogni gesto sembra attingere a un sapere antico, condiviso, istintivo. E anche il testo, come un rito, non cerca di spiegare: preferisce evocare. Lavora per immagini attraverso un linguaggio preciso e affilato, che oscilla tra il comico e il tragico, tra leggerezze che sfiorano il nonsense e fendenti emotivi improvvisi. Ne emerge un’atmosfera sostenuta, sospesa dove fantasia, gioco e possibilità si intrecciano a ansia e speranza, a presente e futuro, a simbolico e concreto. Un dialogo tra opposti sostenuto da un impianto scenico onirico, un non-luogo da manuale: uno spazio bianco e asettico privo di coordinate, dove non c’è distanza tra la metafora e il corpo che la incarna.
Ciò che colpisce maggiormente è la coerenza interna del dispositivo: i simboli sono semplici e mai gratuiti, l’organicità tra testo, regia e corpo è mantenuta con rigore. Alcuni passaggi si allungano, e il ritmo non sempre regge la tensione, ma lo spettacolo riesce comunque a costruire un luogo fragile e denso, dove il tema della maternità si disinnesca dalla sua retorica sociale e torna a farsi domanda esistenziale: cosa significa diventare madri, e cosa resta di noi nel momento in cui generiamo altro?