Improvvisamente, il Weekend scorso

Al Teatro Bellini di Napoli, dal 4 al 9 aprile, Weekend di Annibale Ruccello, regia di Luca De Bei, con Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati, Lorenzo Grilli

C’è sempre un preciso istante, nei testi di Annibale Ruccello, e in particolare nei tre che costituiscono la trilogia del Teatro da camera, di cui Weekend fa parte, in cui è possibile percepire lo scatto, la modifica improvvisa e repentina del punto di vista, l’inattesa trasformazione dell’ordinaria cronaca del routinario disagio nevrotico nello spalancarsi, apparentemente inaspettato, dell’abisso: cade la maschera, un brivido corre su per la schiena e l’inferno si rivela, e ciò che, in fondo in fondo, già sapevi, pur se non emerso ancora a livello di coscienza, prende inopinatamente corpo, s’attesta e si costituisce come ulteriore livello di conoscenza e, insieme, di contradditorietà. Avviene, insomma, ciò che purtroppo t’aspetti ma che in cuor tuo t’auguri non debba accadere: speri, cioè, abituandoti, in qualche modo, come ad una droga, all’alterazione nevrotica e coatta dei rapporti umani, descritti in una prima parte, che assume tutto sommato i caratteri perfino banali, ironici, a tratti finanche comici d’una chiusa inquietudine, illudendo te stesso e confidando in un improbabile acquietarsi delle acque, in moto apparentemente tranquillo, speri, dicevo, tu possa farla franca e risparmiarti il salto, l’immersione nell’orrido, nel sangue, nella morte che attende acquattata negli angoli bui. Lo specchio è l’oggetto di scena – fra i tanti che minuziosamente e con ossessiva pedanteria l’Autore non tralascia mai d’elencare, arredando i suoi interni di follia, ognuno col suo ben preciso significato – che s’assume il circostanziato compito del disvelamento, nel colloquiare alterato tra il prima e il dopo, tra l’apparire prigioniero e chiuso e l’essere della sete inestinguibile di sangue; così è pure in questo fortunato allestimento in scena da ieri al Teatro Bellini di Napoli, già nella stagione dello scorso anno e recuperato in extremis in sostituzione del surreale Dipartita finale di Branciaroli, annullato per le precarie condizioni di salute degli anziani protagonisti. E se sinceramente dispiace per il mancato appuntamento e per le ragioni che l’hanno determinato, siamo d’altra parte ben felici di ritrovare Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati e Lorenzo Grilli che, insieme al regista Luca De Bei, ci conducono in questo viaggio nella follia metropolitana.

Anche qui, dunque, è uno specchio che riflette l’improvvisa scissione della protagonista, Ida, che da tranquilla (ma non troppo) insegnante di mezza età trascinata nel vortice del sesso sfrenato dalla prestanza del classico idraulico chiamato ad aggiustare uno scaldabagno – peraltro del tutto funzionante – si trasforma d’acchito in mangiauomini, in senso pienamente letterale (forse). Tutto era cominciato nel sonnacchioso e noiosetto pomeriggio del venerdì: torna a casa, Ida, la professoressa d’inglese che soffre d’una vistosa zoppia residuo d’una frattura subita da bambina e non perfettamente guarita; torna a casa e ritrova le smanie del viver sola, insofferenze d’una vita di cui già s’intravede procedere un lento autunno, inconfessate voglie di mani che l’accarezzino, pensieri lunghi lunghi vaganti nell’imbrunire dei primi tepori del maggio che avanza, ascolti taciturni di canzoni francesi che raccontano fantasie d’amori romantici. La scena, disegnata da Francesco Ghisu, ci accoglie in questa casa vuota ma poi non così brutta: ha cultura, Ida, dal paesello dell’entroterra campano dov’è cresciuta s’è trasferita a Roma, non è l’Adriana del Notturno, il kitsch non assume l’implacata oscenità fintopatinata dei mobili in truciolato e formica, ostentano invece, i suoi arredi, con orgoglio, qualche parvenza d’eleganza, di silenzioso e caldo riflesso di legno bruno; perfino la grande finestra, che pure lascia entrare, se aperta, i rumori della tormentosa colonna sonora della contemporaneità – è un pianterreno, di più lo stipendio da insegnante non consente – sembra offrire comunque un liberatorio e non soltanto metaforico aprirsi allo spazio esterno, all’aria, alla luce, disperata conquista per questo mondo, invece, che sa di chiuso e stantio, dal sapore d’ineluttabile, invincibile stanchezza.

Si muove in silenzio in questa casa, Ida, come guidata da automatismi di gesti già mille volte compiuti, tra la sigaretta fuori al balcone e il panino consumato in fretta, pensando ad un altrove certo più piacevole. Arriva lo studentello, figlio dell’erbivendola – ha le braccia piene di derrate alimentari che vanno a rimpinguare lo scarso compenso (centomila lire al mese) per le ripetizioni d’italiano e storia della prof. “Leopardi…” è la prima parola pronunciata, dopo quasi dieci minuti; ma Ida è insofferente, liquida in poche aspre battute da zitella il ragazzo, lo manda via. Chiusa la porta, sollecita per telefono l’intervento dell’idraulico: arriverà quasi immediatamente, e ci metterà ben poco per accorgersi delle voglie di lei. La notte e il sabato seguenti saranno interamente occupati dal sesso, fino alla domenica mattina, in cui vien fatto qualche tentativo, subito abortito, d’una qualche conoscenza che vada al di là del gesto fisico, nella ricerca poco convinta d’un possibile terreno comune (anche il giovane è originario del sud); incalza tuttavia la sera della domenica e quel Leopardi invocato all’inizio torna a rattristare la sera del dì di festa, tra le cronache di Paolo Valenti, la sigla di Novantesimo minuto, le ombre che si allungano piano. Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed al festivo il giorno / Volgar succede, e se ne porta il tempo / Ogni umano accidente, direbbe il Poeta, e la malinconia del giorno dopo, del tran tran che riprende, quel rugginoso sfocare lento del giorno festivo che si stempera piano nell’angoscia dei giorni che fuggono, strani effetti porta con sé, lame che si agitano nel buio, cordoncini stretti intorno al collo, giochi sessuali che non vorresti si spingessero oltre, al di là del limite della vita. Il giovane studente, tornato sui suoi passi, dalla finestra osserva. La mattina del lunedì, tutto sembra tornato alla normalità, solo che invece nulla è più possibile che venga definito normale, le allucinazioni si sostituiscono per sempre al raziocinio, non sai più – né vuoi saperlo – se quell’orrore del pasto allucinato sia sogno, incubo, realtà, come i deliranti dialoghi di Ida con se stessa.


Grande prova d’attrice, quella di Margherita Di Rauso, immedesimata a perfezione nella parte della prof bruttina, frustata, nevrotica, sradicata, che alla fine potrebbe scoprire perfino, nell’intimo più riposto suo, ben nascosto sotto le rabbie e le rivendicazioni d’una vita, fauci spalancate che si aprono e squarciano carne e sangue e ossa, nella ricerca assatanata d’un qualsivoglia senso alla propria vita, di fronte a specchi che narcisisticamente rivelano l’io ed altri ego che – forse chissà – tutti celiamo sotto dimesse apparenze. Per questa interpretazione l’attrice è stata finalista, nel 2014, nella categoria miglior attrice protagonista, al premio Le Maschere del Teatro italiano, come pure Giulio Forges Davanzati nella categoria attore non protagonista, nell’edizione 2016 dello stesso premio: insieme a Lorenzo Grilli riescono a costruire, sotto l’attenta direzione di Luca de Bei un bell’esempio di come si possa metter in scena una pièce come questa evitando del tutto il sangue in scena e, con sapiente dosaggio, lasciar nel dubbio atroce il pubblico, in un rincorrersi di sogno e di realtà. Molti gli applausi, alla fine, del pubblico convinto.