
Nel bel mezzo di una scenografia significativa (opera di Alessandra Ricci), che ripropone una cucina sorretta da due colonne sbriciolate, e sulla destra del palco un tavolo con la pista di un trenino elettrico in funzione, il protagonista cerca di sopravvivere al vuoto interiore che lo divora, mentre i vicini di casa – un ristoratore e suo figlio di trent’anni reduce della guerra in Iraq – non lo mollano un secondo, per consolarlo alla loro maniera, con un’invadenza voluta, fatta di chiacchiere, caffè, l’eterno desinare.
Le scene si susseguono svelte, interrotte da un buio che piomba all’improvviso e prepara alla situazione successiva, senza perdere il ritmo agrodolce che caratterizza lo spettacolo. Cannavacciuolo modula il suo corpo sinuoso e incisivo per marcare lo spazio scenico, riempito dalla sua energia forte, mediterranea, drammatica, concedendosi interamente al pubblico con uno charme vissuto, senza fronzoli. Gli attori che lo accompagnano sono valide spalle e riescono ad affrescare quel piccolo, movimentato mondo nel mondo, in cui ancora pulsa un barlume di umanità.

Torniamo alla trama: la chiusura interiore del padre si apre a uno spiraglio di speranza, quando il figlio torna sotto forma di spirito nella casa che l’ha visto crescere. Sulle prime credendo di essere impazzito, egli si convince poi di udire veramente la voce del suo ragazzo. Inizia così una nuova fase, un confronto divertente e a tratti commosso tra i due, fatto del riepilogo degli ultimi istanti di vita e di episodi passati, che fanno luce su un rapporto tenero e sincero. Da questa rinnovata confidenza nascerà anche la soluzione per risolvere una pericolosa questione, che affiora nel momento in cui la camorra fa il suo ingresso nella vicenda. L’amico e vicino di casa, proprietario di una pizzeria, è minacciato da due famigerati fratelli che a suo tempo gli concessero un prestito. Inaspettatamente, la salvezza arriva proprio grazie a una predizione fortunata e provvidenziale rivelata dal figlio -che riesce a “sentire” gli avvenimenti futuri- al padre, svoltando il corso degli eventi.
L’invisibile che c’è è una storia d’amore che si muove su una traiettoria di sofferenza, come il trenino elettrico sulla scena segue instancabile le rotaie. Decantato omaggio, questo, alla ricerca dell’equilibrio e di una nuova motivazione nella vita di un uomo, dopo una grave perdita, una stupida crudeltà del caso. Il teatro si fa qui ponte tra umorismo e intimità, provocando risate brillanti che sfumano in un vivo fremito. Gennaro Cannavacciuolo riesce sempre a comunicare la profondità priva di clamore, che riconcilia il personaggio con la persona, la persona con il suo doppio, il sé con se stesso.
L’invisibile che c’è è un’opera da salvaguardare.