
[rating=5] Bentornato a casa Pinter. Era il 26 ottobre del 1974, quasi 40 anni fa, quando debuttò in Italia, al Teatro Metastasio di Prato, “Il ritorno a casa” di Harold Pinter prodotto dalla Compagnia Gravina-Pani-Orsini, sotto la regia di Mauro Bolognini. Oggi il testo del Premio Nobel per la letteratura è tornato in quella “casa”, grazie alla coproduzione tra Festival dei 2Mondi di Spoleto (dove lo spettacolo ha debuttato lo scorso luglio) e il Teatro Metastasio Stabile della Toscana.
Un ritorno dietro l’altro, quelli che accompagnano il capolavoro pinteriano. Il debutto assoluto di “The Homecoming”, risalente al 1965 presso l’Aldwych Theatre di Londra, segnò infatti un giovanissimo Peter Stein che assistette alla commedia rimanendone folgorato, tant’è che l’anno seguente mise in scena in Germania la versione tedesca del Ritorno, firmando così la sua prima regia. A quasi 50 anni di distanza con una regia fedelissima al testo e un gruppo di attori formidabili, Stein ha fatto rivivere questo capolavoro della drammaturgia, consegnandoci una versione eccellente, il miglior Pinter possibile, oggi.
Narrare la storia, almeno quella apparente, che nel corso delle due ore e quaranta minuti si dispiega sul palcoscenico è cosa da poco. Un vecchio padre (Max) vive con i due figli (Lenny e Joey) e suo fratello minore (Sam), in una casa rimasta priva della figura femminile dal momento della morte della moglie (Jessie). Il terzo figlio (Teddy) del vecchio, vive in America da sei anni, ha una moglie (Ruth), tre figli maschi, e insegna filosofia all’università. A seguito di un viaggio con la moglie, Teddy decide di far ritorno a casa, per salutare la famiglia e presentarla a Ruth. Il ritorno di Teddy è salutato solo apparentemente bene dalla famiglia, scoperchiando vecchi rancori sopiti. Tutte le attenzioni degli uomini ricadono su Ruth, che riempiendo il vuoto femminile nella famiglia diviene il fulcro dei desideri sessuali inappagati dei maschi di casa. Vista come una facile preda, viene oltraggiata, ma finisce per vendicarsi su tutti, prendendo possesso della casa e lasciando tornare il marito da solo in America. Una terra mai amata da Ruth quella del Nuovo Mondo, originaria di Londra, «sono nata qui vicino», sarà dunque lei a fare il vero “ritorno a casa”.
Ma come in ogni pièce pinteriana, sono infinite le ombre che si celano dietro l’apparenza, dispiegando dubbi e chiavi di lettura. Siamo così certi di quello che abbiamo visto?
I silenzi enigmatici. Il non detto. Le pause. Le zone d’ombra. Sono alcune delle caratteristiche dei personaggi che popolano il testo cupo di Pinter, con il loro lato oscuro che cela invidia, rabbia, disprezzo. Dai silenzi, dai minuziosi gesti di tensione, dai tremolii della voce, dagli sguardi, si percepisce la tridimensionalità del personaggio reale, teso come un arco, pronto a infliggere il colpo mortale.
Ed è così anche nel Ritorno, dove Peter Stein con maestria colma le pause con azioni che accompagnano il silenzio, rendendolo ancora più reale. Le frasi ridotte all’osso di alcuni personaggi, sono riempite da sottotesti, gesti e movimenti che attribuiscono un senso di verità anche ai minimi dettagli. I personaggi seguono tutti un graduale percorso evolutivo all’interno dell’opera, finendo nel loro vicolo senza uscita. Una regia minuziosa e delicata, che in punta di piedi, come il ritorno notturno di Teddy, entra nel mondo di Pinter e ci consegna una macrofotografia dal profondo delle relazioni umane.
Fedele all’originale e curatissima anche la scenografia, che ripropone la sezione e gli ambienti della casa con la scala che porta al piano superiore, come un taglio metaforico che divide in due il fondoscena, sottolineato anche da un fascio di luce che segue gli scalini ad apertura di sipario. Un ambiente “chiuso”, come evidenziato dal perimetro della stanza segnato a terra, ma che permette agli attori di muovervisi a vista sia dentro che fuori.
Eccellente prova attoriale dell’intero cast, omogeneo e capace sin dall’inizio ad innescare la tensione nei dialoghi. Mediante un’interpretazione glaciale, spigolosa ed enigmatica emerge l’odio che avviluppa la famiglia, come una crosta in superficie che ricopre delusioni e repressioni.
Le parole dei dialoghi sono armi taglienti che feriscono a morte, più dello scettro-bastone usato da “Re” Max, al quale, in un “finale di partita” imprevisto sarà usurpata la poltrona-trono dal sapore beckettiano. Uno scacco al re che fa cadere tutte le pedine e le loro violente ossessioni ai piedi della “regina” Ruth, nel baratro celato al di sotto della parola famiglia.
Testo caustico, gelido. Attori superbi, con una “resa” interpretativa eccellente nel tratteggiare ciò che “agita” i personaggi dentro (il celato) e fuori (l’agito). da vedere assolutamente!