
[rating=3] Due esuli: il lupo e il ragazzo africano. “Uno di fronte all’altro, si fissando, occhio nell’occhio, nel giardino zoologico deserto, con un tempo infinito davanti a loro.”
L’adattamento de “L’occhio del lupo” (L’Oeil du loup) di Daniel Pennac presentato in prima assoluta da Il Funaro Centro Culturale presso il Teatro Manzoni di Pistoia è stato un successo di pubblico, che ha riempito nella sua interezza eterogenea gli spazi del teatro.
Lo spettacolo è iniziato in modo mediocre con Vincent Berger, che altalenante e senza molta convinzione, si trascina senza posa dalla destra alla sinistra del palcoscenico, scimmiottando il lupo, riconoscibile anche dalla didascalica pelliccia, mentre Habib Dembélé lo guarda attraverso delle lampade fissate su pali di legno grezzo evocanti le sbarre della gabbia di Lupo Azzurro. Per fortuna una lampadina si spegne, dando avvio ad un’abile trovata scenica metateatrale che ribalta narrazione, personaggi, interpretazione e l’intera performance, che da qui in avanti prende una fresca piega dinamica. Le storie di Lupo Azzurro e di Africa si dipanano veloci attraverso le trasformazioni dei due attori, abili ad entrare ed uscire dai panni dei vari personaggi della trasposizione scenica di Pennac, che mantiene intatta l’ossatura del romanzo.
Un libro le cui origini risalgono a 30 anni fa, come ha modo di spiegare l’autore nell’incontro con il pubblico, quando Pennac, all’epoca insegnante, viveva vicino ad un giardino zoologico. Le gabbie dei lupi davano sulla strada, e al mattino quando Pennac andava ad insegnare a scuola, ci passava davanti, rimanendo immobile a guardarli. Ricorda che c’era un lupo che tristemente camminava da una parte all’altra della gabbia, imperterrito, per giorni e giorni. Informandosi dalle guardie dello zoo, scoprì che quel lupo aveva perso la sua lupa. Stava dunque assistendo alla manifestazione di un dolore, e si chiese “Come potrei raccontare questa storia? E chi potrà raccontarla?” Pennac pensò di farla raccontare a un ragazzino africano, esiliato anche lui. E così nacque “L’occhio del lupo”.
Nella pièce che ne è stata tratta va sottolineata la camaleontica prova di Habib Dembélé che si immerge completamente nella dinamica scenica divenendone il punto focale. L’attore originario del Mali, con alle spalle collaborazioni artistiche con Peter Brook, scivola con facilità in pochi secondi nell’interpretazione di ruoli e stati d’animo contrapposti, agli antipodi, come l’avido Mercante Toa e il generoso dromedario Pignatta. Meno frizzante e più monocorde l’interpretazione di Vincent Berger.
La regista argentina Clara Bauer propone uno spazio scenico minimalista, con Africa e Alaska rappresentati da due bassi container riempiti di materiali naturali come il sale, per richiamare la neve dell’Alaska, e la corteccia dell’albero, per il vasto territorio africano. Con una serie di trovate frizzanti e ad effetto riesce a dare ritmo sostenuto allo spettacolo, “strizzando l’occhio” al pubblico con la caduta della neve finale, nel tentativo di riportare in artificio la poesia del libro.
Un occhio, quello del lupo, che aprendosi sul teatro, figurativamente si richiude proprio sulla poesia e magia del romanzo, perdute nell’adattamento che Pennac stesso, assieme a Laurent Berger, esegue al suo piccolo gioiello, un libro per ragazzi (e adulti) dal grande valore universale, dentro il quale mostra la meraviglia della vita: “uno spettacolo che merita di essere ammirato con tutti e due gli occhi!”.
Uno spettacolo che pare puntare sulla notorietà dell’autore e della trama, tradendo l’essenza dell’originale a causa di una macchina scenica metateatrale, che si interessa più a divertire che a far sognare, e quando lo fa, è ormai troppo tardi.