
Quello che in un certo senso più affascina del lavoro di Annie Baker, la giovane autrice del dramma “The Aliens” è il ritmo. Sono le pause di silenzio, lunghe –“potrebbero durare da cinque a dieci secondi”, dice una sua nota registica – che sottolineano momenti di attesa, di riflessione.
I silenzi però non sono mai vuoti (ce lo insegna con la sua opera provocatoria John Cage): se inseriti in un certo contesto si caricano di significati e le lunghe pause tra i due amici, JK e Jasper – con i contorni del viso annullati dal fumo di una sigaretta e lo sguardo assente, perso nel vuoto – sono di fatto un dialogo muto che continua, pieno di complicità, di sottile accondiscendenza, affiatamento, amicizia profonda che in certi momenti non ha bisogno di parole.
E l’opera della drammaturga americana, Premio Pulitzer, ruota proprio su questo sentimento profondo di amicizia, consolidato tra i due trentenni, JK e Jasper, e quello che nascerà tra loro ed Evan, un giovane ragazzo timido che da qualche giorno ha iniziato a lavorare come cameriere stagionale presso il bar nel cui retro degradato, i due passano le loro giornate senza scopo, con qualche sogno e molte velleità.
Anche l’ambiente è carico di simbolismi. I due si trovano ai margini della società, esclusi, abbandonati, incapaci di capire le logiche che governano il mondo, che per altro sembrano rifiutare. La scenografia rende bene l’idea di questa alienazione, un muro sbrecciato, vecchie sedie scompagnate, mattoni impilati che sorreggono una porta che funge da tavolo, sporcizia e bidoni della spazzatura.
Eppure, i due continuano a sognare pur tra le delusioni della vita, anche di tipo sentimentale. Jasper sta scrivendo un romanzo, JK fa testi di canzoni che Jasper accompagna strimpellando la chitarra: non sono d’accordo sul nome da dare alla band che hanno formato, per ora si chiamano “The Aliens”, e mai nome fu più azzeccato.
Il loro riferimento culturale resta Charles Bukowski, poeta e scrittore americano “maudit”, capace di cogliere il malessere di una società che annienta le coscienze e umilia gli uomini, e una filosofia orecchiata e pasticciata (bella la tirata paradossale di JK sul calcolo proposizionale e la reazione di odio per il professore di sociologia).
Il secondo atto si apre con il dramma della morte di Jasper per un overdose. JK si ubriaca, visto che non c’è più nessuno che possa impedirglielo, e anche Evan è molto addolorato per la sua scomparsa perché nel frattempo tra loro tre si è creato un forte legame d’amicizia.
Di fronte alla tragedia, Evan è costretto a crescere e da ragazzetto impacciato e maldestro, comincia ad assumere comportamenti più maturi, quasi imitando Jasper, fumando una sigaretta dietro l’altra e finendo per strimpellare la chitarra che JK gli regalerà.
Sono tutti dei “geni”: Jasper, JK e anche il giovane Evan, “ma nessuno lo sa, all’infuori di loro tre”, parafrasando una famosa frase di Bukowski. E’ il loro modo di affrontare la vita senza essere triturati dal meccanismo conformista imposto dalla società, di guardare da lontano, come succede ai tre quando assistono ai fuochi di artificio del 4 luglio, dal retro fatiscente del bar, senza mischiarsi alla folla, come “piccole tigri” (gatti) che vivono tra i rifiuti.
Ottima l’interpretazione di Giovanni Arezzo e Jacopo Venturiero, che vestivano i panni di Jasper e JK, davvero sorprendente la prova di Francesco Russo, il giovane e maldestro Evan, che ha reso in modo emotivamente credibile la nascita dell’amicizia con i due sbandati e la sua maturazione di fronte alla morte di Jasper che lo mette tragicamente alla prova.
Il regista Silvio Peroni ha trovato la chiave giusta per dare senso a un lavoro complesso dal punto di vista del linguaggio, frammentato, sincopato, aiutato da una bellissima traduzione di Monica Capuani, tutt’altro che semplice, ma felicemente adattata al nostro lessico con i giusti imbarazzi e le reticenze del parlato. L’accompagnamento musicale e le canzoni originali sono di Michael Chernus, Patch Darragh e Eric Gann.