
Ci ha abituati, Massimo Popolizio, in questi anni che la sorte ci ha dato di vivere, a uno sguardo acuto sulle nostre contraddizioni e sulle nostre miserie, che, se non risolutivo – non potrebbe esserlo – certo ci aiuta a decifrare il tempo nostro e le sua inesausta complessità: ed è certo anche il caso di questo Albergo dei poveri che approda in questi giorni anche qui a Napoli, al nostro Mercadante.
Testo pochissimo frequentato, ma di straordinaria efficacia che Aleksej Maksimovic Peškov, con lo pseudonimo universalmente conosciuto di Maksim Gor’kij, scrisse e mise in scena nell’ormai lontanissimo 1902, inaugurando così il Secolo Breve con quella che a prima vista – mai fidarsi dello sguardo frettoloso e superficiale – pare concretizzarsi “solo” in pittoresca carrellata di tipi umani il cui comune denominatore sembra esser la miseria, l’alcolismo, la violenza, l’abbrutimento – animali li chiamerà ad un certo punto un personaggio, identificando sé e gli altri nei soli bisogni primari, animaleschi, per l’appunto, la coscienza è lusso per ricchi. Del resto lui stesso, l’oscuro Peškov di Nižnij Novgorod, era stato uno scarto, orfano, emarginato, miserabile, mille mestieri, non tutti onesti, finché, iniziato alla lettura e alla scrittura dal cuoco di bordo quando faceva il mozzo su un battello sul Volga, cominciò a scrivere, scegliendo per sé quel nome – Maksim Gor’kij, Massimo l’Amaro – che lo qualificava e rischiava di costringerlo, insieme, in una sorta di limbo degli inutili e vani ribelli se non fosse stato, per fortuna sua e nostra, lo scrittore che era, tanto da diventare a trent’anni, lo sguattero ladruncolo reso cinico e freddo dall’odio e dal disgusto, uno degli scrittori più famosi di tutta la Russia.
Fu allora che, un po’ perché nel frattempo aveva sposato un’attrice, un po’ perché si convinse come il teatro fosse un modo più immediato della pubblicazione di libri per arrivare a tutti, soprattutto al popolo che ovviamente non leggeva, cominciò a pensare di scrivere un dramma. Non lo attirava per nulla il dramma borghese, occorreva una forma di teatro che approcciasse la realtà più immediata dei poveri cristi che affogavano le loro insopportabili miserie nella stupefatta trasparenza della vodka, il nirvana dei derelitti alla deriva: fu così che nel 1902 scrisse Na dne, letteralmente Nel fondo, in seguito variamente tradotto in italiano. Intendiamoci, Gor’kij non è affatto un buon drammaturgo, tutta la finezza dell’eccelso scrittore spesso si perde, la tecnica manca del tutto, l’organizzazione della scena è un disastro, occorre, perché regga in palcoscenico, un ottimo regista che sappia ricondurre tutto quell’affastellarsi disomogeneo di storie e di tirate pseudofilosofiche ad un filo logico che naturalmente c’è, e brilla di luce propria, anche se ben nascosto sotto sotto la cenere grigia che copre, confonde, annebbia, perché, come diceva un altro dei personaggi, tutti gli esseri umani hanno piccole anime grigie… e tutti se le vogliono colorare.
Ne sa qualcosa lo stesso Popolizio che, insieme a Emanuele Trevi, ha praticamente riscritto l’intera pièce, operando delle microinserzioni prese da altri autori come Puškin, Tolstòj, Čechov, ma anche dello stesso Gor’kij dei romanzi e dei racconti fino ad arrivare a Cormac McCarthy, alla ricerca affannosa di una qualche tridimensionalità dei personaggi, tagliando anche molte scene ripetitive, per poi accorgersi, dopo esser passati attraverso la riscrittura di otto copioni, arrivati alle prove, di come occorresse una ulteriore fase di revisione scenica, perché a quel testo, pur così pesantemente emendato, fosse necessaria una più stringente drammaturgia.
La prima, in quel lontano 1902, fu data a Mosca, complice Stanislavskij che ne curò la regia riservando a sé la parte di Satin, il ladro, baro e omicida, Satin voce dell’Autore, che non ha altro dio se non la verità, perché – parafrasando Cristo – la verità è il dio degli uomini liberi. E parlare di libertà in quel mondo inacidito dal sudore e dall’urina, inasprito dalla fame e dall’odio, in cui la cosa più dolce è l’odore smielato del sangue è veramente cosa ardua, almeno in apparenza, ma funzionò, visto che l’opera fu aspramente avversata e censurata dal crepuscolare potere zarista, proibita in tutti i teatri imperiali: il teatro verista socialista era nato, poi col tempo è andata a finire come è finita ma ciò nulla toglie al valore di quell’opera e all’entusiasmo di quei giorni lontani.
Fu a questo, probabilmente, in particolare al senso prorompente di rinascita spirituale che aleggia inestinguibile per tutta la durata del dramma – nonostante la miseria esibita e ostentata, come una sdentata bocca affamata o un paio di gambe scosciate dalla lussuria – che in tutta probabilità pensò Giorgio Strelher quando, nel maggio del 1947, inaugurò il Piccolo Teatro di Milano curando la memorabile regia proprio di questo difficile, scostante, portentoso dramma, cui diede anche un nuovo nome, L’albergo dei poveri, per l’appunto: niente poteva, in tutta evidenza, meglio di quest’opera, portare sulla scena di quella che sarà, forse, la più significativa esperienza di teatro italiano del dopoguerra, il punto più basso in cui era caduta l’Italia in quel momento e, insieme, i semi sicuri di resurrezione che già s’intravedevano, nella verità e nella speranza.
Mette così in scena, Massimo Popolizio, questa tragedia corale della miseria e dell’ignoranza, stando ben bene attento a dichiarare il suo lavoro avulso da qualsiasi contaminazione della cronaca: finisce per appartenere, questo attento e mai casuale muoversi sulla scena di ben sedici attori, a una sorta di mistica della storia, fissato nell’eternità di certi comportamenti e di certi pensieri che, pur partoriti con dolore nel sangue e nella carne della veridicità, finiscono per diventar quasi, nella loro essenza finale, archetipi, assumendo su di sé il peso e la gloria dell’epos. Si muovono così sulla scena, gli abitanti di questo albergo dormitorio, con la naturalezza e la veridicità con cui sono stati concepiti, certo, ma, allo stesso tempo, con la consapevolezza – a volte amara come l’Autore, talaltra sinistramente allegra – di appartenere ormai al mondo iperuranio delle idee e delle metafore, ciascuno con la propria verità, ognuno con la propria menzogna, insieme maschere e persone.
L’asfittico mondo loro, letti e panche e materassi che sanno d’ansia e d’escrementi, di succhi umani e pensieri violenti, disegnato da Marco Rossi, ordinariamente ombroso d’umido e viscido, sa illuminarsi opportunamente grazie alla sapienza di Luigi Biondi che usa la luce e la sua assenza per rivelarci una verità alternativa rispetto alla lacerata verbosità del lamento e del laido. Il tessuto connettivo della vicenda è fatto, più che d’una vera e propria trama, dell’ordito costituito dalle vite dei singoli personaggi, che variamente s’intrecciano, si scontrano, si affrontano, suscitando di volta in volta desiderio e disgusto, amore e odio, disprezzo e ipocondria nell’alternasi rapido e inconsulto d’esaltazione e depressione: con grande maestria i sedici attori – difficile oggi trovare tutta insieme tale abbondante ricchezza di volti e d’ingegno – ci restituiscono, vivido e vitale, un mondo che sembra l’estremo, fortunoso e precario appiglio a ciò che resta della vita prima del salto definitivo, verso lo spegnersi furtivo e definitivo d’esistenze ormai inutili.
Così è per la dolce, giovane Anna (Zoe Zolferino) che vive di fronte a noi, senza pudore, i suoi ultimi momenti, afflitta e scossa dalla tisi che non dà tregua, per nulla assistita – ha troppa paura della morte, in tutta evidenza – dal marito, il volgare fabbro Klešč (Michele Nani) pingue e satollo d’aria e d’acqua che trova invece tempo e voglia d’affogare l’umor nero cercando consolazione tra le cosce della prostituta Kvasnja (Silvia Pietta), il cui primo lenone è stato il marito, finché è campato, stuprandola se non portava soldi a casa. Di lei s’innamora sul serio, invece, il poliziotto Medvedev (Marco Mavaracchio), ingenuamente riempiendola d’attenzioni, consapevole, probabilmente, di come in Via del Campo spesso dal letame nascono i fior. Tutti, in fondo, vivono un rapporto problematico con la realtà, magari rifacendosi ad un improbabile e fastoso passato, come il Barone (Giovanni Battaglia) che asserisce, serio, d’essersi sposato in frac, millantando una nobile famiglia (molto) decaduta o come il migrante chiamato Principe per sfottò (Martin Chishimba), felice invenzione dell’adattatore, segno dei tempi che cambiano e delle nuove povertà di nostra signora contemporaneità, o, ancora, come il cinico, depresso e deprimente cappellaio Bubnov (Giampiero Cicciò), creatore d’alta moda tradito dalla moglie e dal suo lavorante, finito sul lastrico, ormai inutile al mondo e alle sue dita, o come l’Attore (Luca Carbone), incapace ormai di ricordare a memoria qualunque parte a causa dell’alcol, accomunato in questo ad Aleksa (Gabriele Brunelli) musico che non sa più suonare, perso ormai nel suo personale universo ad alta gradazione, mentre d’altro tipo è invece la personale droga della zitella Nastja (Carolina Ellero), avida lettrice di romanzetti rosa, che sogna con inusitati trasporti la vita in un più desiderabile altrove, maladattandosi ad una realtà ben più dura.
C’è poi la famigliola dell’usuraio Kostylev (Francesco Giordano), abnormemente gonfio, avido padrone, impellicciato e surreale, del dormitorio, che vive la sua propria autenticità nell’amore smodato per il danaro, trascurando la lasciva Vassilissa (Sandra Toffolatti), sua moglie e pur sempre sua proprietà, che nel frattempo ha invece perso la testa per il ladro Pepel (Raffaele Esposito), sorta di fascinoso e incauto sbruffone. Alla fine di un estenuante tiremmolla, Pepel chiederà in moglie invece l’ingenua sorella di Vassilissa, Nataša (Diamara Ferrero), di cui crede di amare la disarmante autenticità: lei invece non lo ama ma accetta di sposarlo pur di andar via da quel posto orribile; finirà male, naturalmente, l’usuraio accoltellato, Nataša ustionata, Pepel in galera, solo Vassilissa felice d’essersi liberata finalmente dell’odioso marito e vendicata dell’ex amante e della sorella.
Comprendi allora, dal tuo posto di vellutino rosso, come verità e menzogna siano i due poli attorno ai quali s’addensa la tensione emotiva, in qualche modo tutti i personaggi si dispongono su questa linea, tra mezze verità, edulcorati tramiti per una qualche ipotesi di felicità e la verità tutta intera, che sola può essere libera e liberante: quando Gorkij sottopose a Tolstòj, di cui aveva la massima stima, l’abbozzo del manoscritto di Na dne, il vecchio scrittore gli diede una scorsa e poi chiese, tra l’addolorato e il faceto: “Ma perché scrivi di queste cose? Cos’è questo realismo, che ti fa scrivere di ubriaconi, malati disgraziati, che piacere ne hai di crogiolarti in questa negatività?”.
Ecco perché Gorkij creò il personaggio di Luke (Massimo Popolizio), vagabondo misterioso che viene dal nulla e che al nulla torna, alla fine, prodigo di consigli e attenzioni, sempre pronto a rasserenare, tranquillizzare, anestetizzare: Luke, che prende il nome dal più prolisso degli evangelisti, è immagine di Tolstòj, del suo paternalismo, del populismo affabulatore che lo portava a idolatrare Dio, Arte e Famiglia, tanto tanto vicina, questa triade, a quella dei benpensanti di sempre, Dio, Patria e Famiglia: in fondo Tolstòj, come Luke, non crede nel Dio di cui va vanamente cianciando e neanche nell’uomo, come ovviamente non crede nella verità, che anzi, secondo lui, può far addirittura male, un vero pericolo per le anime candide. Prova ne sia, dice, il caso di quel tizio a cui fu fatto credere esistere un Paese dei Giusti ma, quando alla fine scoprì la verità, l’assoluta inesistenza di quel fantomatico luogo, s’impiccò per la delusione: apologo che in tutta evidenza prova, tuttalpiù, come ci sia del marcio nelle menzogne e nelle illusioni, e come esse siano pericolose, una volta svelato l’inganno, ma che sugli allocchi che guardano il dito più che la luna fa sempre il suo effettaccio: e così è anche sulla scena, le fanfaronate di Luke illuderanno il povero Attore che, scoprendo non esistere la terra promessa dove poter curare il proprio alcolismo e recuperare la memoria perduta, s’impiccherà, alla fine, tal quale il tizio della storiella triste.
E sarà ancora Luke a spingere Nataša a sposare Pepel, a far creder loro nell’impossibile scommessa su una consolatoria menzogna piuttosto che su una dura verità, precipitandoli verso la rovina. Popolizio e Trevi ci mettono anche del loro, accentuando, se possibile, l’ambiguità del vegliardo, trasformano il vagabondo in pellegrino, con tanto di capesanta allacciata al collo, del tutto simile a quello immaginato da Caravaggio nei Discepoli di Emmaus di Londra: un uomo che ha visto in faccia Dio ma non ha saputo riconoscerlo, e per questo condannato in qualche modo a vagare per l’eternità cercando ciò che non sa e che invece afferma di sapere. A Luke si contrappone, in qualche modo, Satin (Aldo Ottobrino), l’uomo che gioca d’azzardo a dadi con Dio, verrebbe da dire, lui che, a differenza di Luke, crede nell’uomo e nella verità, quello che non si sottomette alla menzogna, che non cerca accomodamenti: Satin è la voce dell’Autore, certo non è un caso se Stanislavskij riservò a sé questa parte, alla prima del 1902.
In Satin, in molte delle cose che dice, si concretizza gran parte del credo socialista, che finisce per addensarsi soprattutto nello splendido monologo sull’uomo: Ma insomma, che vuol dire uomo? Tu non lo sei, neanch’io lo sono, e neanche loro lo sono… per nulla! Invece tu, io, loro, il vecchio Luke, Napoleone, Maometto… tutti insieme, lo sono. Un modo splendido per concludere, se si vuole, una grande opera corale complessa come la vita, dove è sempre impossibile separare il male dal bene e dove invece, se si vuole, se si può, diventa ragionevole e onesto accogliere e salvaguardare e coltivare, come tesoro prezioso, la molteplicità infinita e libera dei punti di vista.