
È la prima volta che Roméo et Juliette, unica opera di Charles Gounod, insieme a Faust, rimasta in repertorio, viene rappresentata qui a Napoli, al Teatro San Carlo: in questi giorni va infatti in scena un allestimento fortunato, produzione di ABAO Bilbao Opera, Ópera de Oviedo che, in qualche modo, dovrebbe compensare il pubblico partenopeo di tale annosa mancanza. Il fatto è che le fortune del Compositore, che tanto successo ebbe in vita, facendo preconizzare a molti che la sua fama sarebbe in eterno sopravvissuta, hanno subito, nel corso del Secolo breve, un vero e proprio rovescio, come troppo spesso capita: il gusto fortemente spinto verso un esotismo sentimentale che mandava in visibilio il pubblico, massime quello fin de siècle, non è durato oltre la breve stagione della Belle Époque, finendo al macero dopo le due Guerre, gran parte delle sue opere potrebbero apparire, al contemporaneo che volesse immergersi in quel mondo perduto, troppo artificiose e zuccherose, basate come sono su una scala di valori che finirebbe per sembrarci del tutto estranea.
Figurarsi, allora, quando si trattò di cimentarsi con una storia come quella degli amanti veronesi, celeberrima tra quelle che il Bardo scrisse, famosa, certo, ma anche più immielata e incrostata d’annosa e pervicace patina romantica ch’intorbida e avvilisce il senso ultimo della storia dell’amore degli adolescenti veronesi, diventati, loro malgrado, simbolo stesso dell’amor lezioso e sospiroso che velava lo sguardo delle signorine dell’ottocento sentimentale e un po’ patetico. E l’innamoramento di Gounod per la storia dolorosa degli amanti più celebri del mondo è, tra l’altro, di vecchia data, lui stesso la fa risalire agli anni della formazione, quand’ebbe modo di assistere, al Conservatoire de Paris dov’era studente, alle prove della sinfonia Roméo et Juliette, ancora inedita, che Berlioz avrebbe fatto eseguire per la prima volta pochi giorni dopo.
Ne rimase talmente colpito che, arrivato nel 1839 a Villa Medici dopo aver vinto il Prix de Roma, a vent’anni, iniziò a comporre, sotto la spinta emotiva, un’opera col titolo italiano, Romeo e Giulietta, sullo stesso libretto di Felice Romani utilizzato, undici anni prima, da Vincenzo Bellini per I Capuleti e i Montecchi. Quando, tuttavia, molti anni dopo, mise al lavoro finalmente i suoi fidi librettisti Jules Barbier e Michel Carré, già autori di Faust, l’esito dell’opéra-comique, Roméo et Juliette, che fu presentata al pubblico nel 1867, fu molto diverso sia dalla tragedia del Bardo sia dall’opera di Bellini: cuore dell’azione scenica è infatti il dramma intimo dell’amore che lega i due giovani, tralasciando del tutto l’aspetto politico – il conflitto tra Guelfi e Ghibellini – che divide le famiglie e che invece è molto presente sia in Shakespeare sia nel libretto di Romani.
Ne deriva che, mentre la tragedia del Bardo nasce da una sorta di disobbedienza civile dei due giovani rispetto all’assurdità del conflitto politico che insanguina la vita sociale della città, traendo il loro amore forza e vigore dalla speranza di poter far cessare tutto quel dolore e tutto quel sangue, in Gounot l’amore trae forza da se stesso, una sorta di primo motore immobile che non si cura del contesto storico, determinando di per sé le vicende umane.

Non è una differenza da poco, tant’è che, al di là del sicuro successo di pubblico, molti accorti critici dell’epoca notarono tali evidenti discrepanze, lo stesso Verdi – e non poteva essere diversamente – non accettava affatto che il sipario calasse, per esempio, sul duetto con l’ultimo bacio, riducendo tutto a una sorta di rappresentazione da romanzo d’appendice incentrata sull’amore contrastato.
In questa produzione, che ha il difficile compito di presentare, a più di centocinquant’anni dalla prima, quest’opera per certi versi iconica come fosse un’assoluta novità, due fuoriclasse interpretano gli amanti più famosi del mondo: Javier Camarena ed Elsa Dreisig, che sostituisce, per quest’ultima recita, l’indisposta Nadine Sierra. Il tenore messicano è noto per essere uno dei massimi esponenti del repertorio belcantistico romantico e uno dei più ammirati in tutto il mondo, accanto a lui, il giovane soprano franco-danese, al suo esordio qui a Napoli e quasi del tutto sconosciuta in Italia, ha già interpretato tuttavia ruoli da grande protagonista.
È solo il caso che, dunque, nel mentre mi ha tolto la possibilità di ascoltare Nadine Sierra in questo ruolo in cui ha fatto registrare grandi consensi di pubblico e critica, mi ha al tempo stesso fatto dono dell’opportunità – che, confesso, aspettavo da tempo – di poter ascoltare e applaudire in teatro questa cantante che finora mi son dovuto accontentare di guardare in streaming: non nascondo che mi aveva colpito in modo particolare, tanto che, pur non recensendo mai spettacoli registrati, per una volta feci un’eccezione, in occasione della straordinaria Manon in versione Massenet allo Staatsoper Hamburg, nel 2021, in piena emergenza Covid, da me recensita qui.
Nonostante, comunque, il classico avvicendamento dell’ultimo momento, che ti catapulta in scena senza un minimo di prove, la chimica tangibile tra i due protagonisti è di fatto evidente – lei ha comunque affrontato questo ruolo più volte – basta un attimo per dimenticare l’innegabile incoerenza anagrafica degli interpreti rispetto all’adolescenza dei personaggi del bardo per identificarsi e credere nel delizioso inganno che crea la musica e il canto dei due e convincersi dell’incanto della scoperta del primo amore.
Elsa Dreisig applica la sua tecnica ormai collaudata, la sua inconfondibile voce e le sue indubbie possibilità sceniche a un accurato studio della sua Juliette, sia sotto il profilo musicale sia sotto l’aspetto drammaturgico. La prima cosa che si nota, all’inizio, è la sua toccante fragilità, sotto la leggera patina di inconsapevole giovinezza, preludio al dolente percorso di convincente maturazione, sempre con quel suo fraseggiar francese talmente accattivante che ti sembra impossibile che Juliette possa parlare – e cantare – in diverso modo che da questo: ogni gesto, ogni espressione facciale del personaggio si riverbera perfettamente e senza apparente sforzo nella voce, il risultato è eccellente sotto ogni punto di vista, arrivando ai punti più alti passando attraverso tutte le innumeri sfumature dell’amor tragico, dalle vette gioiose di Ah! Je veux vivre! agli abissi dolorosi dell’”aria del veleno” – che di solito viene tagliata – Amour, ranime mon courage sempre toccando il cuore di chi ascolta in platea.

Così nei tanti duetti – che un po’ costituiscono l’essenza stessa di quest’opera, mai così numerosi – rivivono, ripresentandosi alla nostra attenzione e al nostro sguardo, gli amanti immortali usciti dalla penna del Bardo ma reinventati dalla vitalità del musico francese: nella scena della camera da letto l’angoscia di Roméo per l’uccisione di Tebaldo è mitigata dalle mani e dalla voce di Juliette, in quella suprema della tomba – al contrario del dramma shakespeariano – Juliette si risveglia prima della morte di Romeo, che quindi fa in tempo a vederla morire due volte, per nulla.
Riesce, allora, puntando tutto sull’amore – com’è giusto che sia, rispettando le scelte dell’Autore – a render credibile il suo Roméo, Javier Camarena, che più dovrebbe soffrire la distanza dal suo personaggio, con i suoi quasi cinquant’anni d’età: la sfida è vinta grazie a voce di rara bellezza, in uno con fascino e grazia, eleganza e stile. La sua esecuzione di Ah, lève-toi, soleil è stata semplicemente superba, lasciando trasparire in modo evidente e mirabile passione e desiderio, sogno e tenerezza.
Di variabile spessore il resto del cast, mi limiterò a citare l’eccellente Frère Laurent, scuro ed energico, di Gianluca Buratto, coinvolgente anche sotto il profilo attoriale, mentre timbro vellutato e intonazione perfetta caratterizzano la prestazione di Alessio Arduini nei panni di Mercutio, notevole la sua ballata della regina Mab. Ottima Caterina Piva che fedelmente ha saputo restituirci la vivacissima parte di Stéphano con la sua deliziosa ballatella; la fedele, premurosa balia di Juliette, la cospiratrice Gertrude, è Annunziata Vestri, che ben conosciamo, voce decisamente interessante, dal bel timbro bruno; possiede, Tybalt, lo squillo e il tratto eroico di Marco Ciaponi, riuscendo alla fine a risultare corretto e convincente.
Dirige l’Orchestra del Teatro San Carlo, puntuale e senza sbavature grossolane, Sesto Quatrini, la cui la direzione appare sostanzialmente inappuntabile, pur se priva talvolta del brio, della leggerezza, dello slancio che una partitura come questa forse pretenderebbe, accentuando invece soprattutto le parti drammatiche, meno quelle liriche e questo forse, in questo caso specifico, è un punto cruciale, che ci riporta inevitabilmente alle controversie anche all’epoca della composizione di cui dicevamo in premessa. L’armonia, in quest’opera in particolare, è caratterizzata da modulazioni espressive e da una scrittura vocale che privilegia la morbidezza della linea melodica, sapendosi distinguere, anche rispetto alla tradizione del Grand Opéra francese, per una maggiore intimità e un lirismo più raffinato che molto piaceva al pubblico dell’epoca, anche se molti critici rimproveravano l’Autore di non essersi cimentato con l’irriducibile complessità che invece poneva il Bardo.
Certo, l’orchestrazione è ricca ma mai sovraccarica, fa un uso sapiente degli archi per esprimere la dolcezza lirica e degli ottoni per i momenti di maggiore tensione drammatica, anche una lieve accentuazione dei contrasti può risultare, per una sensibilità più italiana e senz’altro più contemporanea, molto più accettabile, palatabile, godibile di un’esecuzione invece francamente aderente al dettato dell’Autore che, inevitabilmente, ci parrebbe, oggi, senz’altro più svenevole, evanescente, vaporosa.

Del resto, anche la regia di Giorgia Guerra, essenziale nella estrema nudità della scena, non si cura di porre l’accento, come causa prima dei lutti e del sangue né l’amour fou degli sventurati amanti né le diatribe storiche d’un (troppo?) lontano medioevo, ricorrendo invece ad altro dato sociologico, alla radice di avversità, controversie, equivoci, disinganni: appellandosi probabilmente a una frase di Roméo morente: les parents ont tous des entrailles de pierre!, centro della scena diventano proprio quei genitori di pietra, segno e simbolo di un asfittico e tradizionalissimo senso della casa e del focolare, una sorta di familismo amorale ante litteram, ben prima che lo stesso Banfield coniasse il termine stesso.
Debitore dell’estro di Federica Parolini, d’apparenza inamovibile s’erge, allora, al centro della scena, ogni cosa ruotando attorno ad esso, un grigioscuro monolite, in luogo dell’amore – primo motore immobile – che l’autore volle e immaginò. Di roccia e cemento la sua visione schiaccia le nostre percezioni, incombendo, dunque, e rivelando la sua mista essenza, in parte naturale, in parte dovuta alla mano dell’uomo, come la millenaria istituzione che rappresenta: la famiglia, che discende, come questa grigia epifania, in parte dallo ius naturale, in parte dalle non infallibili leggi degli uomini, nella sua immota imperturbabilità non sembrano trovar posto incertezze ed emozioni, tutto copre e tutto oscura, tutto inquieta e tutto angoscia, celando ben al di sotto della sua solidissima apparenza l’amore e l’odio insieme, rivelando tuttavia, man mano che la tragedia s’inoltra, crepe e cedimenti, cicatrici antiche che si riaprono, suture che il tempo nascondeva, sempre più deiscenti, tuttavia, alla prova degli eventi.
Architetture infiorate, elaborati capitelli, volte inaccessibili, suggestioni piranesiane ovvero forme astratte e fumose di pura inconsistenza che fluttuano libere sono proiettate su questa torre d’impervio aspetto, con tecnica non certo nuova ma efficace, facendo sì che, con un gioco avvolgente di luce essa alla fine si apra, si rompa, perfino, per ospitare la camera di Juliette e il fatidico verone dove sognante s’affaccia, si faccia cripta dove Frère Laurent concepisce il suo fallimentare piano per riportare la pace in Verona, chiudendosi, alla fine, come un enorme sarcofago, sui corpi degli amanti ormai morti.
E tuttavia, quasi contrastando la sfacciata astrattezza della scena, s’avvale, come per contrappasso, la drammaturgia registica, anche di altri due fondamentali elementi che sa valorizzare al massimo grado: il coro e i costumi. Il coro ha vita tutta sua, in quest’opera: il Coro del San Carlo, diretto da Fabrizio Cassi, benché a ranghi ridotti – così m’è parso – riesce a svolgere un ruolo fondamentale, protagonista sia dal punto di vista drammaturgico che musicale. La sua presenza non si limita al solo decoro, ma contribuisce attivamente a costruire l’atmosfera della vicenda, sottolineando i momenti cruciali della trama e amplificando il pathos delle scene, suscitando contrasti tra scene festose e momenti più intimi e drammatici, con l’uso di tessiture corali ricche e coinvolgenti magnificamente eseguite, veri e propri elementi narrativi che guidano l’evoluzione della storia.
E poi ci sono i costumi, che il disegno voluttuoso di Lorena Marín pone in un immaginario, colorato, lussureggiante e rassicurante (per i cultori della fedeltà librettistica) medioevo in cui la severità del gotico è già pronta ad aprirsi e a sbocciare alle delizie del primo rinascere degli usi e delle arti: a loro il compito, ben chiaro all’idea registica, di mediare tra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, addolcendo la pillola per inconsolabili melomani. Forte di tutti questi elementi, la narrazione procede allora spedita, uscendo dalle secche dove il tempo e il mutar del gusto l’avevano incagliata, rendendola non solo credibile ma addirittura naturalissima, riflettendo e riassumendo l’esperienza di ciascuno, rinnovando quel miracolo che si chiama teatro e che ieri sera si è ancora una volta realizzato di fronte ai nostri occhi, sciogliendosi, alla fine, in lunghissimi applausi per tutti i protagonisti.