Home Teatro Risate amare oscillando fra la nobile miseria e la misera nobiltà

Risate amare oscillando fra la nobile miseria e la misera nobiltà

[rating=3] Appena si apre il sipario del Teatro dell’Arena del Sole di Bologna, una grata appesa al soffitto invia una flebile luce su un tavolaccio nel mezzo alla scena, dei gocciolii lontani e il fugace e frenetico rincorrersi di figure senza meta lasciano intravedere una fogna con tanti topi che scappano.
Con questa stupenda scena (che avrebbe potuto durare anche qualche secondo in più) si viene catapultati in casa di Felice Sciosciammocca e del compare Pasquale, cioè nella miseria più nera. La fame, il personaggio di fondo dell’intero spettacolo, attanaglia tutti, li affatica, ma allo stesso tempo è il pungolo delle loro esistenze, l’eterno stimolo la cui soddisfazione costituisce la loro maggiore aspirazione.
Felice e Pasquale, salassatore uno, scrittore di lettere per detenuti disperati l’altro, vivono di espedienti, costantemente inseguiti dai familiari per i pochi soldi necessari a mettere qualcosa sotto i denti e dal padrone di casa in cerca dei suoi affitti arretrati. Ormai è diventato quotidiano impegnare qualcosa per poter mangiare, un cappotto, una coperta, la vera del matrimonio. Ma l’occasione della rivalsa non si fa attendere: il nobile Eugenio, innamorato di Gemma, ha bisogno
del loro aiuto per poter presentare la sua famiglia al padre di lei, un ex cuoco arricchitosi per un lascito testamentario. Questo perché la famiglia di Eugenio, contraria al matrimonio, non accetterà mai di andare in casa di un vile cuoco, seppur ricco. Felice e Pasquale, con la complicità delle loro mogli e figlie, si trasformeranno nella famiglia nobile di Eugenio, travestendosi nei panni di principi contesse e baroni, dando vita ad una serie di esilaranti equivoci e battute sarcastiche, che culmineranno in un finale ricco di colpi di scena.

Lo spettacolo risulta dinamico e divertente, le battute sono ben ritmate e nella maggior parte dei casi per niente prevedibili, sebbene siano state scritte quasi 125 anni fa. Merito anche di una sapiente rivisitazione del testo originale, scritto nel 1888 da Eduardo Scarpetta, il quale, oltre ad essere il padre del famoso Edoardo De Filippo (risultato di una tresca con una sarta teatrale) è soprattutto il creatore del personaggio di Felice Sciosciammocca (in dialetto si potrebbe tradurre con “colui che sta a bocca aperta”, che si impressiona facilmente) che in “miseria e nobiltà” è ancora molto simile al furbo plebeo Pulcinella della tradizione di figura napoletana ma che poi se ne differenzierà, diventando meno irruento, più medio-borghese e raffinato.

Il testo non è quindi nel dialetto napoletano originario ma è più vicino a quello in italiano del film “miseria e nobiltà” del 1954 con Totò, anche se rivisitato e corretto. Si sono rese più brillanti e sceniche alcune battute e giochi di parole, seppur introducendovi qualche parolaccia contemporanea, che strappa la risata ma potrebbe lasciare un senso di amaro ai puristi del genere.
Il titolo stesso evidenzia la contrapposizione fra la miseria, che interessa tutto il primo atto, e la nobiltà, che contraddistingue la restante parte dello spettacolo: i poveri vengono rappresentati come persone litigiose e rancorose, abituate a utilizzare stratagemmi per sopravvivere e pronte a difendersi dai tiri altrui. Nelle loro liti arrivano anche alle mani, fino a mordersi, come farebbero dei cani straziati dalla fame. I nobili invece vivono in un mondo ovattato, dove l’elevazione sociale è un valore imprescindibile, forse l’unico. Anche in questo contesto però l’uomo deve ricorrere a stratagemmi, come quello di Eugenio già citato, ma anche quello di Gaetano, fratello di Gemma, che periodicamente sottrae soldi al padre sapendo che poi la sorella metterà una buona parola per la ciclica rappacificazione. Dietro quel muro di irreprensibilità ipocrita, anche la nobiltà cela la litigiosità, l’arrivismo e la competizione. Allora sembra che la miseria e la nobiltà siano facce della medesima medaglia, con la differenza che il povero deve sopperire ai bisogni primari di sopravvivenza, mentre il nobile a quelli di esclusività e ostentazione.

Scarpetta parteggia apertamente per la miseria, che viene mostrata nella sua vera natura, disperata ma positiva, agognante ma ottimista, sempre capace di cogliere le occasioni che la vita prospetta. E Geppy Gleijeses esalta questo concetto anche con espedienti scenici molto riusciti: durante tutto il primo atto non esistono quinte, tutti i personaggi che dovranno entrare in scena vi si trovano già, ai lati del palcoscenico. La loro presenza accentua la forza della narrazione, come a comunicare che le vicende vissute dai protagonisti sono condivise da molte altre persone. Nella nobiltà, al contrario, tutti trovano scuse per sfuggire al palco, si ritirano nel giardino fuori dalla scena, o nelle mille stanze della casa, è come se si fosse impegnati a fare qualcos’altro perché i problemi affrontati non sono in realtà così impellenti. Si vede solo la miseria e di nuovo la miseria mascherata da nobiltà, la miseria è verità mentre la nobiltà è sofisticazione, come ci urla contro la moglie di Pasquale nel primo atto: «la nostra è fame vera, tutto il resto è sceneggiata!».

Geppy Gleijeses, sempre all’altezza della situazione pur impersonando un ruolo per niente facile (il termine di paragone è niente di meno che Totò), convince sia alla regia sia sul palco, appoggiato dal bravo Lello Arena nel ruolo di Pasquale.
Il resto degli attori è convincente, con una recitazione leggera e qualche volta urlata, che ben si sposa al testo esaminato. L’unico neo forse è rappresentato dal non facile ruolo di Peppiniello figlio di Felice, personaggio che fu il primo ruolo teatrale di un giovanissimo Edoardo De Filippo, che compensa qualche battuta lasciata andare e non vissuta fino in fondo con una prorompente simpatia.

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