Una verità nuda, che non concede scampo. Alexander Zeldin trasforma il reale in ferita: ogni dettaglio respira vita vissuta, ogni silenzio pesa come un turno di notte. Prendre soin apre la stagione del Metastasio di Prato con un teatro che non rappresenta ma espone, con la precisione quasi documentaria che ha reso il regista il “Ken Loach del palcoscenico”. Una potenza narrativa che nasce dall’assenza di finzione.
La scena è desolata, illuminata da luci al neon che invadono anche la platea: una macelleria industriale, o meglio la sua sala ristoro, dove quattro addetti alle pulizie si ritrovano dopo turni notturni estenuanti. Una scaffalatura metallica piena di detergenti, una porta a battente, le pareti piastrellate: tutto appare reale, consumato, funzionale. Il pubblico entra in un ambiente sociale prima ancora che teatrale, un “non-luogo” in cui la fatica quotidiana diventa materia scenica.

Philippe, Louisa, Suzanne ed Esther lavorano per un’agenzia interinale, contratti a zero ore per quattordici notti di lavoro, in un sistema che li macina e li espelle. Nassim, il capo turno, li coordina con distacco, tenendo in equilibrio la propria precarietà e la minima autorità concessagli.
La messinscena, iperrealistica, alterna dialoghi a frammenti di lavoro vero: lo stridore della macchina lavapavimenti, i gesti ripetuti e meccanici, le pause segnate da silenzi condivisi. Quando infine irrompe il “vero” ambiente di lavoro, la macelleria con i macchinari sporchi di sangue, i brandelli di carne appesi, il fetore, la scena si apre come una ferita collettiva. Quel sangue, figurativo e mentale, si espande fino a sommergere lo sguardo dello spettatore, chiamato a condividere l’odore, la fatica, la vergogna di un mestiere invisibile.
Nella versione francese di Beyond Caring, Patrick d’Assumçao, Lamya Regragui, Charline Paul, Juliette Speck e Nabil Berrehil formano un ensemble intenso e misurato, capace di restituire la fragilità dei personaggi con una verità disarmante.
Zeldin costruisce la propria drammaturgia con la precisione dell’inchiesta e il pudore della poesia. Nella ripetizione dei gesti, nella lingua asciutta e nei silenzi carichi di attesa, si percepisce un’eco pinteriana: vite sospese, ansie trattenute, dignità ostinata. Ogni personaggio porta con sé una scheggia di vita frantumata, un figlio lontano, una separazione, la paura del nulla. Eppure, in quell’inferno notturno, nasce una forma di solidarietà, fragile e necessaria.
Un atto politico senza proclami, che mostra l’umanità che resiste nell’oscurità: l’eroismo minimo di chi ripulisce gli scarti della società. Alexander Zeldin espone senza filtri la vita precaria e del lavoro invisibile, dove la scena diventa ferita e testimonianza. Nella crudezza dei neon restituisce la dignità della fatica e la fragile forza di una fraternità che sopravvive al disincanto. Prendre soin non consola, ma illumina. E in quella luce fredda, intermittente, rimane l’atto più umano di tutti: prendersi cura, anche quando sembra impossibile.