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La distance tra qui e il transumanesimo

La tragedia post-politica di Tiago Rodrigues inaugura la Stagione del Teatro Mercadante di Napoli

La distance, Tiago Rodrigues, 2025 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon

L’atrio è affollato, stasera, qui al Teatro Mercadante di Napoli, con gentile fermezza le signorine dello staff tengono rigorosamente chiusi gli accessi che portano in platea e ai palchi: comincia, la Stagione, con una pièce di Tiago Rodrigues, cinquantenne genio d’Amadora, in Portogallo, prima attore, poi regista, infine autore di un teatro da lui definito vivo, radicato nella scrittura per e con gli attori, mosso da una poetica che trasforma la realtà attraverso lo strumento teatrale. La distance, sua ultima fatica, approda allora qui a Napoli reduce degli applausi e degli allori raccolti al Festival d’Avignon nel luglio scorso: opera della stretta contemporaneità, dunque, che ci viene presentata in lingua originale – in francese con la canzone Sonhos di Caetano Veloso in portoghese – scelta quanto mai felice, l’uso dei sovratitoli dovrebbe ormai concederci il lusso di poter godere di tutto il teatro nella lingua in cui è stato concepito, non solo le opere del secolo nostro, ma anche i grandi classici.

Quando finalmente entriamo in sala, mancheranno dieci minuti all’inizio previsto, sono accese in sala le mezze luci, il sipario è aperto, Ali, il padre, è già silenzioso in scena con l’abito marrone consumato eppure così elegante e tutto questo stabilisce fin da subito il regime percettivo dell’opera: la distance non è solo tema narrativo, ma condizione teatrale. Perché quando poi Ali a un certo punto comincia a parlare le mezze luci in sala rimangono accese per tutta la durata del suo primo intervento, rompendo quel che potremmo chiamare patto teatrale classico, in cui il buio che precede uno spettacolo sancisce la sospensione del reale, la totale immersione nella finzione scenica.

Qui, invece, Rodrigues ritarda e insieme anticipa questo rituale: il teatro non inizia quando lo si guarda, ma mentre si sta ancora arrivando, entrando, sistemandosi, il pubblico non assiste, accade, invece, con lo spettacolo, la distance — e la sua percezione — non è oggetto della narrazione, è il suo inizio. Immagina, allora, l’Autore, un mondo prossimo venturo, flagellato da disastri ecologici di portata incommensurabile: spiagge rosse abitate da meduse gigantesche, pesce ormai immangiabile, intere città come Sydney distrutte e sommerse, un’attesa vigile ma rassegnata verso il prossimo disastro – alluvione, terremoto, eruzione che sia – che potrebbe essere l’ultimo, pur in un contesto tecnologicamente avanzato che prevede la possibilità di viaggi e colonizzazioni spaziali, come su Marte.

È una realtà chiaramente distopica, come in certa fantascienza sociologica che ipotizza possibili evoluzioni catastrofiste a partire tuttavia dalla lettura del reale, portando alle estreme conseguenze date premesse: un’ipotesi negativa che in questo caso prevede anche, dal punto di vista politico, una guerra non dichiarata ma sostanziale, tra le Repubbliche, avanzo antiquato di ciò che furono gli Stati, e le CorpoNazioni, probabili eredi delle vecchie Big Tech (SpaceX, Blue Origin, Meta/AI) che investono in infrastrutture esistenziali. Tutto questo lo spettatore attento lo ricostruisce con pazienza da frammenti sparsi in ciò che ascolta, schegge di verità da riportare alla luce, perché qui non c’è un Narratore onnisciente o comunque un personaggio che detiene la Memoria di ciò che fu: tutto è affidato all’originale forma che Rodrigues ha scelto per questa suo teatrare che potremmo chiamare dramma epistolare.

Due personaggi si alternano infatti sulla scena, un padre Ali e una figlia Alina: lei è appena partita per Marte senza dir nulla al padre – perché avrebbe potuto dissuaderla – e quando lo spettacolo comincia si trova sulla navetta che la porterà, insieme ad altri, sul Pianeta rosso, Ali le manda un videomessaggio che lei riceverà solo una volta arrivata a destinazione.

La distance, Tiago Rodrigues, 2025 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Le luci in sala si spengono finalmente solo quando la scarna scena, sempre la stessa, ruota su se stessa mostrandoci Alina a destinazione su Marte che manda il suo videomessaggio di risposta: i due personaggi non si incontreranno mai faccia a faccia, tranne che in sogno, la loro comunicazione è obbligata a procedere con tale modalità che implica, per l’appunto, sostanziale distanza, allontanamento, perdita progressiva accentuata e sottolineata dal dispositivo rotante della scena, dalla separazione fisica degli spazi – sono, di fatto, l’uno spalle all’altra – dall’uso della luce – di volta in volta dorata, calda, rosseggiante – creando un’atmosfera evocativa che ne rende concreta e percepibile la metafora.

In particolare il dispositivo scenico rotante, due emisferi in movimento – due facce, in fondo, della stessa medaglia – traduce fisicamente la tensione tra prossimità e assenza, emozione e freddezza, fantasia e tecnica: la luce dorata e i rossi marziani operano da Gestus brechtiano, non nel senso della distanziazione razionale, ma come codici visivi che segnalano il contesto socio-politico tra Terra esaurita ma custode delle Memorie e Marte artificiale dove la Vita può ricominciare. La spazio scenico – disegnato da Fernando Ribeiro – diventa allora geografia dell’assenza, il palco quasi vuoto, una roccia e un albero caduto segnano inevitabilmente il confine ultimo tra sopravvivenza e rinascita, sintomo ineluttabile di una distanza che non si colma, sotto gli occhi di tutti: la distanza tra Ali e Alina è infatti concretamente occupata da noi che sediamo in platea.

Le mezze luci durante il primo messaggio di Ali impediscono la protezione percettiva del buio, non possiamo ancora “nasconderci” nel ruolo di spettatori, rimanendo visibili gli uni agli altri, presenti come collettività reale, coinvolti senza mediazioni, senza fuga possibile, proprio come per i personaggi. Noi – il pubblico – diventiamo allora terzo incomodo della relazione padre-figlia: siamo lo spazio materiale di una mancanza, il vuoto che interrompe l’amore, la distanza incarnata, il teatro ci assegna il ruolo politico di testimoniare la separazione. Perché poi, appena sotto il dramma familiare del complesso rapporto padre-figlia, emerge con forza quello che è il cuore di questa pièce, tragedia post-politica dove il conflitto non è più tra individui e società, ma tra biologia e memoria, in cui la perdita della figlia avviene mentre la figlia è ancora presente, è viva, ma non ricorda, è vicina, ma non è più lei, la distanza finisce di essere condizione geografica per certificare il fallimento della memoria – della storia – in comune.

Nel tessuto drammaturgico Adama Diop dona alla figura di Ali complessità e stratificazione: il padre di Alina, medico, incarna la frattura tra memoria e sopravvivenza, tra ciò che non si può dimenticare e ciò che si vorrebbe cancellare per continuare a vivere, la sua funzione sulla scena è liminale, si muove lungo il confine tra privato e politico, tra passato e presente, tra il dolore che resta e la possibilità di un futuro negato. Ali non è soltanto un uomo sconfitto, è un sopravvissuto, perché nella logica distopica dell’opera esiste un congegno di potere — un siero per i Dimenticati — in grado di annullare selettivamente, in 320 giorni, la memoria personale: il vecchio filtro delle streghe trova qui il suo potente aggiornamento, Alina ne è destinataria, la sua partenza per Marte coincide con l’avvio di un processo di cancellazione emotiva che la libererà dagli ingombranti e troppo umani ricordi.

Il filtro dell’oblio è il prezzo per salire sulla nave del futuro: chi parte per Marte deve dimenticare la Terra, si diventa così nuovi cittadini del nuovo mondo, ma solo cancellando il passato. Ali, invece, non dimentica, non può, non vuole, la sua memoria è il luogo stesso della sua identità politica: la resistenza, in questa lacerante tragedia, sopravvive solo nel ricordo delle sconfitte, facendo sì che infine il personaggio assuma i tratti del testimone eretico, perché in un sistema che cancella la memoria per annullare il dissenso, ricordare diventa un atto di ribellione.

La distance, Tiago Rodrigues, 2025 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

La CorpoNazione, infatti non deporta i corpi, riprogramma i ricordi, la posta in gioco non è territoriale, è biopolitica, è gestione della memoria, del legame familiare, del dolore. Ali lo capisce tardi: il ritorno è tecnicamente possibile — quindi il potere è anche negoziabile — ma va chiesto in tempo, prima che il legame affettivo sia rimosso: se la figlia dimentica il padre, la distanza non è più geografica, è ontologica. L’intero monologo-dialogo del padre non è, in fondo, una richiesta di ritorno, ma va letto come chiamata alla reciprocità: vuole essere ricordato – non è forse il ricordo una forma d’immortalità? – rifiuta che l’amore venga trattato come una patologia da curare, la sua disperazione non è cieca: è politica.

Ali non contesta infatti alla figlia la scelta personale, bensì l’infrastruttura che la determina, una corporazione biopolitica che ha monopolizzato perfino la definizione di dolore sopportabile: difende un diritto fondamentale, il diritto a soffrire per ciò che si è amato. La CorpoNazione non è solo antagonista politica: diventa il terzo personaggio invisibile – e dunque più potente – del dramma familiare, materializza la distanza padre-figlia, trasforma il conflitto affettivo in questione geopolitica, dettando i suoi regolamenti e le sue leggi mostra gelidamente che l’amore è un problema amministrativo in un mondo dove la tecnologia è sovrana. Se Ali lotta per preservare la memoria e Alina lotta per sfuggire al passato, è tuttavia la CorpoNazione che decide i termini del loro patto.

Ci sono due tipi di speranza, dice ad un certo punto Ali alla figlia: la prima forma di speranza è quella che crede e combatte, se sconfitta risorge, non dandosi mai pace finché non raggiunge il suo scopo; la seconda non combatte, semplicemente distrugge per costruire da capo il nuovo mondo dell’inflessibilità e dell’incorrotta purezza. Questa seconda forma di speranza, dice Ali, è quella che ha portato, nel corso della storia umana, ai più grandi disastri, e tuttavia Ali ha già perduto, lui stesso, medico, porta scritta sulla propria pelle la mappa della lotta perduta: è, il Medico, colui che guarisce, che mette insieme tutte le forze per sconfiggere la malattia e la morte e, quando non può, quando il male è ineluttabile e troppo forte, perlomeno cura, medica, lenisce senza mai cancellare, distruggere, annullare.

E tuttavia non manca di stupire quest’apparente condanna, da parte dell’Autore, anche rispetto ai lavori passati, dell’esigenza di tener sempre il fuoco acceso: davvero dell’entusiasmo giovanile – tanto spesso eroico – che spesso preferisce la radicalità alle mezze misure, nulla c’è da salvare rispetto a ciò che sembra – e spesso è – acconciarsi alla buona, al borghese, eterno tengo famiglia? È, questa malinconica rassegnazione, la fine dei sogni, il rintanarsi conformista nella propria tana o casa o paese o nazione o pianeta?  Credo che tutto questo, anche il nostro personale stupirci, sia comunque tutto dentro la dolorosa sofferenza dell’epoca nostra, in cui ci troviamo a vivere impotenti in una accidiosa complessità: del sogno eterno – eternamente giovane – si sono impadroniti predoni, lupi travestiti da agnelli, perfino the last frontier ormai è privatizzata, il prezzo da pagare per accedere a quel sogno, se pure inquinato, è adeguarsi, dimentichi, al mercato.

È in fondo proprio questa, a ben pensarci, la contemporanea tragedia che affligge Ali e Alina, che affligge tutti noi: l’impossibilità, concreta e palese, di scegliere una parte, di sposare fino in fondo una tesi, un partito, una prospettiva che riesca a tramutarsi in compiuto e coerente percorso. Perché tutte ci appaiono, alla fine, limitate, inquinate, trappole mortali dove finire di scontare i nostri giorni sprofondando sempre più nel labirinto delle nostre stesse contraddizioni oppure darsi anima e corpo a progettualità spersonalizzanti dove ciò che conta, alla fine, non sono le nostre scelte ma un anonimo, perfetto ed algido algoritmo.

La distance, Tiago Rodrigues, 2025 © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

D’altra parte Alina, che Alison Dechamps con impeto e tenerezza impersona, rappresenta il futuro: giovane, tecnicamente “libera”, selezionata per un viaggio verso Marte che coincide con l’inizio del trattamento neurologico finalizzato alla rimozione della memoria, è in tensione continua tra desiderio individuale e normalizzazione sociale, tra emancipazione e violenza istituzionale, tra un atto che dovrebbe garantirle un nuovo inizio e la perdita irreversibile di ciò che la rende chi è. Se Ali è il custode della memoria, Alina è il campo di battaglia dove la memoria viene smantellata, in virtù di una scelta che sembra consapevole: lei vuole dimenticare.

È chiaro, tuttavia, che il suo desiderio non nasce nel vuoto, è inscritto nella logica delle CorpoNazioni, per cui la felicità coincide con l’eliminazione del conflitto interno, dell’affetto che blocca, della storia che pesa. La sua motivazione è ribaltata rispetto a quella del padre: Ali ricorda per resistere, Alina dimentica per sopravvivere, Alina è il prodotto dell’ideologia dell’efficienza emotiva, in cui il dolore non è più una componente dell’esperienza umana, ma un errore del sistema da correggere. La sua decisione è il perfetto cortocircuito del libero arbitrio: esprime l’ultima vera scelta della sua vita, rinunciare alla possibilità stessa di scegliere.

Rodrigues interpreta così una delle promesse più oscure del transumanesimo: siamo ancora liberi quando la nostra libertà consiste nel consegnarci al controllo totale? Il corpo di Alina è, a ben vedere, completamente assoggettato alla tecnopolitica: sottoposto a un trattamento neurochimico, programmato per un ambiente extra-terrestre, reso indifferente agli affetti sedimentati, macchina da riproduzione affidata al caso o, meglio, alle esigenze della CorpoNazione cui appartiene.  La sua trasformazione in “neutrale” rivela la posta in gioco della distopia: eliminare l’amore significa eliminare la vulnerabilità; eliminare la vulnerabilità significa eliminare il conflitto; eliminare il conflitto significa eliminare la politica. Alina diventa così un corpo compatibile con il mercato: leggero, senza storia, senza legami, senza radici, l’ideale ultimo del potere corporativo, soggetto perfettamente riciclabile in cui la relazione con Ali rappresenta l’ultimo ostacolo alla perfetta integrazione nel nuovo ordine.

La tragedia non risiede, dunque, nel conflitto generazionale, ma nel fatto che il padre è per lei l’ultimo deposito di un passato “malato”, amarlo significa restare vulnerabile, ricordarlo significa restare umana. Il sistema indirizza la sua rimozione verso un obiettivo: trasformarla da figlia in funzionaria del progresso, la parola del padre diventa un virus sentimentale da espungere. Peccato che la potenza di questo messaggio si perda poi, in parte, attraverso l’utilizzo di un linguaggio visivo e testuale troppo edulcorato, che tra l’altro contrasta con la severa eleganza della scena, così essenziale in forma e sostanza: il ripetersi troppo accentuato e scontato di vezzeggiativi, di improbabili ricordi, di riferimento agli ormai immancabili odori e sapori finisce per risultare stucchevole e artefatto, alla fine, pur comprendendo il tentativo di contrastare la temuta completa anaffettività con un surplus di emozioni.

Alina rimane, tuttavia, figura tragica del contemporaneo, prova vivente che, in un mondo che non tollera la sofferenza, la felicità si paga con la cancellazione di ciò che ci costituisce: ma, a differenza sua, noi ricordiamo. In virtù del miracolo che ogni volta il gran Teatro compie, la memoria che lei sta perdendo si trasferisce allo spettatore, con un meccanismo operante fin dal momento in cui la luce cala e avanza il buio progressivo, in parallelo al viaggio di Alina verso Marte: noi, seduti sulle nostre rosse poltroncine, inevitabilmente diventiamo complici involontari, testimoni di quella Memoria, archivio vivente del legame che sul palco si spezza, protagonisti di un imprescindibile, altissimo, ineludibile investimento etico.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Drammaturgia
Attori
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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la-distance-tra-qui-e-il-transumanesimoLa distance <br>testo e regia Tiago Rodrigues <br>con Alison Dechamps, Adama Diop <br>scene Fernando Ribeiro <br>costumi José António Tenente <br>luci Rui Monteiro <br>musiche e suono Pedro Costa <br>produzione Festival d’Avignon, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale (Naples), Onassis Stegi (Athènes), La Comédie de Clermont-Ferrand Scène nationale, Divadlo International Theatre Festival, Le Volcan Scène nationale du Havre, Teatre Lliure (Barcelone), Centro Dramatico Nacional (Madrid), Malakoff Scène nationale Théâtre 71, Culturgest (Lisbonne), De Singel (Anvers), Équinoxe Scène nationale de Châteauroux, Points communs Nouvelle Scène nationale de Cergy-Pontoise / Val d’Oise, Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa (Milan), Maillon Théâtre de Strasbourg Scène européenne, NTCH Taiwan National Theatre and Concert Hall, Les Célestins Théâtre de Lyon, Théâtre du Bois de l’Aune (Aix-en-Provence), Théâtre de Grasse Scène conventionnée d’intérêt national Art & Création, Scènes et Cinés Scène conventionnée d’intérêt national Art en territoire (Istres), Le Bateau Feu Scène nationale de Dunkerque, Plovdiv Drama Theatre, Malta Festival (Poznan), Espace 1789 (Saint-Ouen) <br>Durata, 1 ora e 45 minuti <br>Spettacolo in francese con sovratitoli in italiano <br>In scena dal 22 al 24 ottobre 2025 <br>Napoli, Teatro Mercadante, 23 ottobre 2025

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