Lo spettacolo María, tratto dal racconto Sono venuta solo per telefonare di Gabriel García Márquez, si presenta come un’intensa riflessione sulla follia e sull’ineluttabilità del destino, portata in scena dalla regista Elena Delithanassis, produzione di Hangar Teatri. Il Teatro del Cantiere Florida di Firenze ha ospitato questa prima toscana, un’esperienza che mescola il realismo magico con un’indagine sul confine labile tra sanità mentale e follia, verità e sogno.
Ambientato nella Spagna franchista, lo spettacolo affonda le sue radici in un contesto storico oppressivo, che diventa il terreno fertile per una narrazione densa di simboli e immagini poetiche. María, ex ballerina e assistente del Mago Saturno, è il fulcro di un viaggio esistenziale che intreccia frammenti di ricordi, illusioni e disillusione.

La narrazione si muove tra elementi quotidiani e soprannaturali, tipici della tradizione sudamericana di Márquez. L’introspezione psicologica della protagonista, María, viene espressa attraverso una mise en scène che gioca con il surrealismo e con il simbolismo.
Il suo improvviso viaggio verso l’ospedale psichiatrico diventa il punto di non ritorno, e da lì si apre un universo dove la realtà e la follia si sovrappongono.
La scenografia, essenziale e quasi spoglia, riesce comunque a evocare l’opprimente claustrofobia del destino che avvolge María, personaggio al centro di un incubo da cui sembra impossibile svegliarsi. L’utilizzo di luci e ombre, arricchito dalla presenza di manichini inermi, aggiunge un elemento di disturbante simbolismo, amplificando l’atmosfera inquietante e sospesa che pervade l’intera messa in scena.
Tuttavia, nonostante la forza del materiale originale, alcune scelte registiche non riescono sempre a trovare un equilibrio tra i momenti onirici e quelli drammatici, lasciando alcuni passaggi narrativi in sospeso e poco coesi.
La recitazione, in particolare quella della stessa Delithanassis nei panni di María, appare poco incisiva, a tratti monocorde, faticando a restituire la complessità emotiva di un personaggio intrappolato in una spirale di smarrimento. Meglio invece le interpretazioni di Francesca Becchetti, che dà vita a un’infermiera spietata e inquietante, e di Marco Palazzoni, capace di incarnare con efficacia sia il marito-mago, caratterizzato da una delicatezza quasi malinconica, che un’enigmatica figura dal fascino misterioso, perfettamente inserita nel contesto magico e ambiguo della trama.
L’oppressione storica del regime franchista si riflette nel racconto come un’ombra costante che condiziona la vita di María, amplificando il senso di isolamento e impotenza. Questo contesto soffocante trasforma la follia in una metafora collettiva di alienazione e perdita d’identità, costringendo la protagonista e lo spettatore a confrontarsi con il senso di annientamento.