Home Teatro L’avaro di Moliere al Dehon di Bologna

L’avaro di Moliere al Dehon di Bologna

[rating=3] Scenografia, costumi e messa in scena classica de “L’avaro” di Moliere al teatro Dehon di Bologna.

Guido Ferrarini non tradisce le aspettative, interpretando Arpagone, l’avaro appunto, in modo irreprensibile: con le giuste pause, le reiterate manie e le nitide diffidenze verso chiunque lo circondi, compresi i suoi familiari, ognuno è visto come il possibile ladro del suo patrimonio. L’unico neo è forse la voce molto roca che non aiuta quando deve urlare contro i domestici, incontentabili spendaccioni e scialacquatori.

Arpagone, il re degli spilorci, intende “sistemare” i suoi figli facendoli sposare con chi pare a lui: per il figlio Cleante ha pensato ad una vecchia vedova, così da poterne ereditare il patrimonio, mentre per la figlia Elisa al “buon partito” signor Anselmo, che ha promesso di prenderla senza dote e questo basta e avanza a colmare ogni dubbio sul buon esito del matrimonio. Per lui si è riservato Marianna, ragazza giovane, bella e piena di virtù. Questo scombina i piani di Cleante che ama appunto Marianna, ma anche di Elisa, innamorata del faccendiere Valerio, il quale bazzica in casa di Arpagone per farsi notare, adularlo e mostrarsi morigerato per piacere al futuro suocero.

Scaturiscono così molti equivoci, intrighi, sospetti, colpi di scena, cassette piene di soldi che spariscono e poi ricompaiono come per miracolo, che porteranno all’happy ending finale dove ognuno ottiene ciò che vuole, i figli sposano le persone amate e Arpagone non deve pagare un soldo per i matrimoni.

Il testo di Moliere, riportato in modo molto fedele, enfatizza l’attaccamento al denaro del protagonista sopra ogni umana comprensione: Arpagone, anche quando viene messo davanti ad una scelta difficile cioè ottenere la mano di Marianna o riavere la sua cassetta piena di soldi, non ha ovviamente dubbi. Il suo cuore e il suo lavoro sono protesi alla preservazione e all’incremento del patrimonio, senza ricavarne peraltro niente in cambio se non l’odio delle persone che lo circondano: questa commedia aiutò molto Verga a costruire il famoso personaggio di Mazzarò di una delle sue novelle che, ormai vecchio, in fin di vita e solo, “andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini”, al grido di “Roba mia, vieni con me!”. La maniacale taccagneria ha molte conseguenze comiche, come il telo che Arpagone mette sulle sedie prima di sedersi per non consumarle, oppure le raccomandazioni elargite alla servitù in vista, purtroppo, di un banchetto: servire da bere “esclusivamente quando vi viene chiesto e non secondo il costume di certi servitori impertinenti che provocano gli ospiti e rammentano loro che possono bere quando non ci pensano affatto. Aspettate che ve lo chiedano più di una volta e ricordatevi di portare sempre in tavola molta acqua”, che il vino da alla testa, e “dove ce n’è per otto ce n’è per dieci”, sempre attento a non far morire gli ospiti di indigestione! Accanto al tema principale dell’avarizia, fa capolino anche quello della scelta fra la verità e la bugia del mastro Giacomo che chiude la commedia: “Che cosa si deve fare? Mi prendono a bastonate perché ho detto la verità e vogliono impiccarmi perché ho mentito”.

Bravi gli attori per questo classico evergreen che non smetterà mai di ammaliare il pubblico.

Eccessiva la “predica finale” per salvare il teatro dove, facendo leva sulle persone presenti alla rappresentazione, si vorrebbe sensibilizzare chi sta a casa ad avvicinarsi al mondo teatrale. Oltre al passaparola necessario ma non sufficiente (il teatro deve attirare a sé e non attendere l’altrui “compassione”), ci vorrebbe un maggior riconoscimento, da parte dello stato, del ruolo della cultura nella nostra società, ma qui entriamo in discussioni che esulano da questo contesto pur stando molto a cuore a tutta la redazione di Fermata Spettacolo.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version
X