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Il Caso Tandoy scritto e diretto da Michele Guardì

In scena al Teatro Quirino di Roma fino al 16 ottobre

Un enorme biblioteca, tanti giornali, un terrazzino con tenda emula di un sipario, due scrivanie, una per il procuratore e l’altra per l’autore, ovunque vestigia di aggiornamenti di cronaca ovvero ricerche bibliografiche e siamo in scena.  Voci in sala dagli altoparlanti prospettano la scelta della moglie per una serie poliziesca in tv e benché ci sia affinità di tematiche il marito ha la stesura su un commissario: è in preda a una furibonda ispirazione e propende per concentrarsi al piano superiore laddove la vetrata con drappeggio a mo’ di boccascena, fa maggiore ambient alla creatività dello spettacolo che sta per partorire. Impareggiabile per precisione interpretativa, duttilità scenica e brillantezza attoriale eccolo è Gianluca Guidi. Questi ha in mente di portare a teatro uno degli errori giudiziari più clamorosi degli anni sessanta legato all’assassinio del Commissario Cataldo Tandoy. Alla presenza dei due attori parte il progetto de “Il Caso Tandoy”.

Due scrivanie perché la stesura richiede in parallelo l’indagine del procuratore  sempre sulla sinistra il grande Giuseppe Manfridi, perfetto per terminologia, correttamente forbita quale il ruolo richiede e tempi naturali per niente didascalici, e la creazione di una sceneggiatura che su un caso così duro crei fascino nel pubblico comunque ultimo giudice in tutti e due le valutazioni. Ed ecco alla destra della stanza lo scrittoio del puparo cosi lo ha definito l’autore nonché regista Michele Guardì, noto al pubblico italiano per le sue regie televisive spiccatamente leggere ma non di meno pregio laddove si pensi al musical sui Promessi Sposi che per ben due stagioni ha girato nelle sale teatrali più importanti di Italia. E sì è siciliano e di pupari se ne intende e sa come definirli e inquadrarli

Grande tessitura drammaturgica, colta,  attenta ai termini, talora desueti come “immonda”, “corrusca”, “tribadismo” ecc, ecc,.., che nella giusta mostra che merita la nostra lingua fa ironia e ilarità nell’inconsueto uso che li caratterizza. Si apre la tenda del terrazzino ed ecco la scena è il centro di Roma negli anni sessanta gli spari colpiscono alle spalle il commissario che serenamente passeggiava a braccetto con la moglie di qui il caso giudiziario e lo spettacolo. Due attori per la nascita del progetto: uno sarà il segretario e l’altra, il primo teste, ovvero la vedova a sedere al cospetto del nostro procuratore per raccontare la vicenda. Lamenta con toni gravi  “Che tragedia, che tragedia…!” e chiede,  di qui, il divertente, ma  è l’evidente difficoltà di rappresentare un tale errore in teatro, se  deve seguire le indicazioni del regista o dire tutto come successe al procuratore.

Tra i testimoni si succederanno il primario dell’Ospedale Psichiatrico della città, interpretato magistralmente da Gaetano Aronica, che in quanto amante della donna, il procuratore da indagini basate su lettere anonime, individua come mandante dell’assassinio; la moglie di lui, Danika di origini slave bellissima, affascinante e di giusto piglio recitativo Marcella Lattuca, sospettata di relazione lesbica, o “tribadismo” appunto con la vedova; il fratello del primario e il defunto e qui lo zampino del puparo fa dell’arte il mestiere di ridare vita ai morti. Bravissimo Antonio Rampino nei panni dell’emerito Cataldo Tandoy.

Ossessionato senza valutare altre piste, e affidando le ricerche a lettere di ignoto autore, donde l’ilarità giustamente provocata dall’autore teatrale nel vedere come la stanza dell’appartamento si vada viepiù trasformando in un ufficio postale, visto il continuo susseguirsi di corrispondenze improbabili, il Procuratore porta in carcere per mesi oltre al Primario, due presunti esecutori materiali e la Vedova addirittura accusata di consenzienza all’assassinio del marito e pertanto complice dell’amante principale indiziato.

Se la valutazione del caso e dei suoi risvolti giudiziari richiede una pausa, ecco la moglie del puparo arrivare in terrazza per augurare la buonanotte al marito con tanto di vestaglia laddove rinfrescasse e approfittare per risvegliargli un desiderio di incandescente intimità. Quindi chiede il sipario e fine primo atto donde l’apprezzamento del nostro scrittore per i guizzi di utilità, come questi, della consorte e acconsente al quarto d’ora di intervallo.

La ripresa certifica la sentenza della Corte d’Assise con l’assoluzione per tutti “per non avere commesso il fatto”. Coup de théâtre dal fondo della platea appare un essere malandato se non malconcio che si autodenuncia come colui che ha eseguito il malfatto. Ed ecco che tutti i personaggi dalla tenda o teatrino delle prove ritornano a raccontare tutto ciò che è successo nel frattempo. Sì in effetti l’unico condannato a soli trent’anni è stato l’ultimo sopraggiunto che malconcio lo è sempre stato ancor prima del processo, infatti  si era prestato al delitto dietro compenso di una povera somma della quale aveva bisogno per sopravvivere, gli era stato riconosciuto lo stato di necessità infatti eccolo. Gli altri nemmeno uno in galera: i condannati si erano tutti dileguati.

E se lo spettacolo si chiude con la lapide che il Primario ha fatto affiggere all’ingresso del manicomio “QUI NON TUTTI CI SONO E NON TUTTI LO SONO” possiamo concordare con l’autore che “ogni tragedia ha il suo momento di farsa” e che come in questo caso “talora anche al puparo tocca fare il pupo” e gli applausi meritatamente sgorgano copiosi in una platea gremita di spettatori.

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