Mi sono presa del tempo per scrivere questa rcensione. Come sovente accade quando qualcosa nel prodotto teatrale finisce per far stridere qualche mio meccanismo interno. Così è stato per Il caso Jekyll, in scena al teatro Quirino di Roma dal 21 gennaio al 2 febbraio 2025. La storia ça va sans dire prende le mosse dal celeberrimo racconto dello scrittore Robert Louis Stevenson: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde. La trama è nota. Un rispettabile medico gentiluomo decide di dar vita al suo dark side, un doppelganger laido e assetato di sangue nella Londra della seconda metà dell’800.
L’esito non potrà che rivelarsi tragico. Tuttavia nello spirito del tempo in cui l’opera fu partorita, non manca l’ammonimento allegorico. Quale? Probabilmente lo stesso di Joseph Conrad in Cuore di tenebra, dove sembra metterci in guardia dallo scavare troppo a fondo nell’umanità. Il rischio è trovarvi qualcosa di riconoscibile in modo terrificante: “la mente dell’uomo è capace di tutto, perchè contiene tutto, il passato come il futuro”.
E allora la mefistofelica creatura partorita, come Atena dalla mente di Zeus, dagli anfratti psico-traumatici di Jekyll, sulla falsariga di molti altri prodotti letterari protagonisti del Romanticismo (Gli elisir del diavolo, Frankenstein, Il sosia, Il ritratto di Dorian Gray tanto per citare i più noti) non può che cavalcare la scia dell’horror-gotico sulla figura dell’ombra, dell’altro, del “cattivo” più o meno sopito nell’animo di ciascun essere umano.
Si tratta di un tema evidentemente caro da sempre all’invenzione creativa, che già animava con risvolti invece comici pure la commedia classica. Da questa stessa ricchissima materia hanno poi attinto grandi filosofi e psicoterapeuti, proprio per indagare le ragioni più profonde e talvolta oscure dell’io. Insomma la duplice natura di ciascun essere senziente, che sia la cattiva, la bonaria, o al più quella ingessata nel costume civile a risultare preponderante, non può che rivelarsi ancora e sempre felice materia di narrazione.
Non stupisce dunque la scelta di Sergio Rubini di voler traslare sulla scena teatrale il bestseller di Stevenson. Opera inizialmente data alle fiamme dallo stesso autore, perchè considerata dalla consorte del tutto priva di moralità. Rubini oltre a interpretare il dottor Lanyon, firma infatti la regia della grande produzione del Teatro Bellini, in collaborazione con Marche Teatro e Stabile di Bolzano. Una produzione imponente che non si risparmia sull’impatto visivo, con le belle scene di Gregorio Botta e la scenografia di Lucia Imperato, il disegno luci di Salvatore Palladino e i costumi di Chiara Aversano. Il tutto incastrato aritigianalmente in fumose atmosfere mistery, dove a farla da padrone sono ombre, vetri appannati, strade buie.
Un apparato scenico che in principio sembra supportare la volontà registica di Rubini: incarnare anche la figura del narratore, la cui voce plasma letteralmente personaggi e avvenimenti sulla scena. Mentre Rubini parla, catturando parole da un leggìo, compaiono infatti pian piano i protagonisti del racconto, illuminati ad hoc come sotto la luce di un lampione londinese. Su tutti il bravissimo Geno Diana nei panni dell’avvocato Utterson. Un incipit meraviglioso.

Insomma dapprincipio tutto sembra funzionare. Gli interpreti sono perfettamente calati nella parte e il protagonista Daniele Russo appare subito magistralmente credibile nelle vesti del diabolico Hyde. Poi qualcosa si inceppa. Complice pure forse qualche inconveniente nella direzione di scena. Lo specchio che cala e si rialza in un angolo, cigola malamente con rivolti quasi comici. Nella scena dell’assalto alla fiammiferaia si srotolano d’improvviso dall’alto grappoli di corde-cappi, che invece risalgono rapidissimi nel buio delle americane come in un musical.
Nascondono è vero delle raffinatezze: lo specchio manco a dirlo è evidente richiamo alla maschera o alle plurime maschere dell’io. Oggetto per eccellenza di trasmutazione, dalla Alice di Carroll che lo attraversa, ad Antoine Doinel in Baci rubati di Truffaut, che di fronte al suo riflesso ripete fino alla sfinimento il proprio nome. Le corde dal canto loro ammiccano forse alla scena dell’impiccagione della bambina. Peccato però che siano come pezzi scollati dal racconto, che vorrebbe concentrarsi sulle radici del male, senza riuscirci fino in fondo.
C’è poi il cambio di personaggio di Russo, che se in Hyde risulta perfetto, quando indossa l’abito del “buon Jekyll”, assume toni esacerbati al limite dell’effeminato, che ne smontano ogni solidità scenica. Su di lui Rubini sostituisce all’espediente fantasy della pozione, una trasformazione più concreta, che però alla fine, a ben vedere, si riduce a uno strappo di parrucca. Anche questo passaggio mi ha lasciata un po’ perplessa.
Ultima pecca, a mio personale sentire, l’aver seguito quasi pedissequamente la costruzione della fonte letteraria, con una sorta di flashback a esplicare il già noto al pubblico. Nel testo originale per chiarire cosa era accaduto al dottor Jekyll e chi fosse davvero il famelico Hyde, si usa l’artificio del racconto di Lanyon e della lettera-confessione di Jekyll. Questi due elementi che evidentemente funzionano sulla carta, poi in scena appaiono invece rindondanti, facendo risultare un po’ tutta l’opera eccessivamente lunga. Quasi raccontata due volte.
Non mancano tuttavia anche degli aspetti positivi. Come l’uso della bambola di pezza a impersonare la bambina e l’interpretazione dei personaggi minori, tutti meritevoli di menzione: Roberto Salemi, Angelo Zampieri e Alessia Santalucia, che si alternano in vari ruoli, dal maggiordomo Poole al signor Enfield, passando per la madre della piccola suicida. Tutti davvero bravi, così come Rubini, perfetto nel ruolo di narratore e del pacato dottor Lanyon. Soprattutto nel duetto con Russo, nella scena del povero uccellino fagocitato. Lì pure lo stesso Russo (che ho più volte ben recensito come ne Le cinque rose di Jennifer) nei panni di Hyde dà del suo meglio. Bella anche la trovata finale sui presunti trascorsi non proprio limpidi di Jekyll. Bene sì, ma non benissimo.
Insomma Il caso Jekyll è un prodotto ben confezionato, che presenta però qui e lì a mio personale e sempre opinabilissimo parere delle criticità. Devo confessare che leggendo dal foglio di scena le note di regia, io poi me l’ero configurato completamente diverso. Probabilmente qualcosa di molto più psicologico e meno narrativo. L’aver invece assistito a una trasposizione quasi del tutto integra del testo di Stevenson mi ha lasciata un po’ spiazzata. Forse perchè, raccogliendo la lezione del maestro Kazan ne Gli ultimi fuochi (la memorabile scena del nichelino), mi schiero convinta dalla parte di chi sappia “tradire” un testo per offrirgli una visione, nel passaggio da uno strumento creativo all’altro. In questo caso dal romanzo al palcoscenico.
Questo “montaggio” mi è sembrato talvolta eccellente, talatra didascalico e nel dover esprire una critica finale mi pongo esattamente nel mezzo, senza sapere da che lato “pendere”. Concludo allora con un parallelismo. Stevenson nella seconda metà della sua vita si trasferì fino alla morte nelle isole Samoa, dove veniva chiamato dagli indigeni (che a quanto pare lo idolatravano) “Tusitala” il narratore di belle storie. Questo dettaglio biografico mi ha fatto subito pensare ancora a Cuore di Tenebra. Il passaggio in cui Marlow andando in cerca di Kurtz si imbatte nelle urla sguaiate e nei gesti scomposti degli indigeni (che pure lo consideravano un semidio).
Da quel piccolo capolavoro di formazione, Coppola trasse con molte libertà un altro capolavoro assoluto del cinema che è Apocalypse now. In entrambe i casi il cuore appunto del racconto è un cuore nero, la tenebra che abita in ciascuno di noi. La stessa del dottor Jekyll. Marlow osservando quelle grida animalesche, le percepisce come mostruose e selvagge, al limite dell’umano. Eppure al tempo stesso coglie la sincera e spaventosa consapevolezza di appartenere invece alla loro stessa identica materia vitale. Mi domando se non basti in fondo quel minuscolo eppure immortale paragrafo per raccontare tutte le storie del mondo. Inclusa quella del dottor Jekyll e Mr Hyde, a cui mi sarebbe piaciuto assistere a teatro.