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Così Latella demolisce Arlecchino

[rating=3] Nominare “Arlecchino” nella linguistica teatrale, equivale a scaturire la spontanea prosecuzione “servitore di due padroni”, trovandoci così di fronte al composto sintagmatico “Arlecchino servitore di due padroni”. L’opera Strehleriana per eccellenza ha dunque superato per fama quella di Goldoni, facendo dimenticare l’autentico titolo “Il servitore di due padroni”, dove peraltro il personaggio di Arlecchino non è presente, senonchè sotto le “mentite spoglie” di Truffaldino. Fu Strehler che volle recuperarlo, anteponendolo al nome della commedia, per indicare più chiaramente ai pubblici stranieri il carattere dell’opera.
Il capolavoro di Strehler resta inarrivabile, per stile e per longevità, tantochè ha continuato e continua a vivere dopo la morte del Maestro, ad oltre 60 anni dal debutto (24 luglio 1947 al Piccolo di Milano) con Marcello Moretti prima e in seguito Ferruccio Soleri, tutt’ora nei panni del servitore policromatico.

Nessuno chiaramente intende “misurarsi” con il Maestro, ma pedissequamente assistiamo a messinscene del Servitore che in qualche modo vi si confrontano, almeno il pubblico lo fa, alimentando parellelismi e polemiche nel nome della tradizione della commedia dell’arte.
Se poi a cimentarvisi è uno come Antonio Latella, forse il miglior regista contemporaneo che abbiamo in patria, lo scontro e la demolizione della pièce è scontata, come i fischi dei più “ortodossi” goldoniani. Intanto un successo lo spettacolo lo ha ottenuto: quello di far discutere. È preferibile un pubblico adirato che dormiente. Ma entriamo nel merito della discussione, analiticamente.

"Il servitore di due padroni" per la regia di Antonio Latella

“Il servitore di due padroni” messo in scena da Latella si poggia sulla riscrittura drammaturgica del classico per opera di Ken Ponzio. Un taglio decisamente attualizzato, con dialoghi minimalisti e aggressivi, ma fin troppo estraneanti, incerti e a tratti disarmonici, con alcune coordinate spazio-temporali fuorvianti. Il canovaccio è lo stesso goldoniano, tranne che per un piccolo particolare, una forzatura che vede Arlecchino/Truffaldino non più servo di Beatrice ma bensì fratello, sotto mentite spoglie, tal Federigo Rasponi che nel testo originale risulta ucciso in duello passionale. Da qui si avvia la dinamica del rapporto incestuoso tra fratelli, nato da una battuta del testo originale «la se vestiva da omo, l’andava a cavallo, e lu el giera inamorà de sta so sorella», che sottintende all’ambiguità di Beatrice e ad un possibile rapporto tra fratelli.

Nonostante l’originalità del punto di vista, si avverte la fragilità della trovata, molto labile e poco chiara, finendo per smarrirsi all’interno del ritmo serrato della commedia, sfuggendo anche al pubblico più attento e disorientandolo nella ricerca disperata di un filo logico da seguire.
La riscrittura di Ponzio del Servitore è una tabula rasa sulla quale rimodellare una storia intrisa dalle tradizioni del presente: tv, sesso estremo, soldi e successo. Anche i personaggi, tranne l’autoctono Pantalone, hanno perso le loro origini, la loro lingua, il loro passato. Persino Arlecchino è spogliato dai suoi colori e della sua maschera, bianco come una pagina vuota, cela dietro sé la pallida menzogna, ricordando per abito e corporatura Francesco Manetti in A.H. (leggi la recensione).

La contemporaneità che Antonio Latella vuole fornire alla commedia è ben visibile fin dalla scenografia. La commedia infatti è ambienta in un ampio corridoio di un hotel moderno, con due porte disposte su entrambi i lati corrispondenti a delle camere e un ascensore con annessa tv sul fondo scena. Distante anni luce dalla locanda di Brighella diranno i puristi, ma senz’altro molto più vicino a noi.
É qui che si consumerà gran parte dell’azione scenica, più o meno vicina all’originale del testo, un pò caotica e immotivata, con accenni non troppo celati a bisessualità maschili e femminili dei personaggi. A gran ritmo, tra trovate sceniche, didascalie al telefono, elenchi e spiegazioni dizionaristiche, di cui spesso Latella fa uso, si giunge con maestria all’implosione delle pareti che delimitano la scena, l’artificio, con gli stessi attori impegnati nello smontaggio. Con il palco vuoto, quando tutto potrebbe, e forse dovrebbe concludersi, la pièce prosegue per una rotta poco chiara, verso la frantumazione del personaggio, dove il linguaggio classico si amalgama all’avanguardistico e l’anatomia del “lazzo della mosca” decreta la definitiva morte/riscoperta delle origini.

Arlecchi? No! Il Servitore di Latella é uno spettacolo corale, dove Arlecchino e le sue tinte sono sgretolati e fusi nelle sfumature di energia di tutti gli altri personaggi. Eccellente l’interpretazione dell’intero cast. Nelle oltre due ore di spettacolo gli attori si sono messi in gioco con rigore ed energia nell’intricata drammatizzazione, relazionandosi continuamente con ambiente e oggetti, compreso il grande cambio scena. Roberto Latini attinge dal suo bagaglio, dando vita ad un Arlecchino pinocchiesco, metafisico, con modulazioni vocali spinte agli estremi, dal grave all’acuto. Federica Fracassa dà il meglio di sé nei panni di una Beatrice energica, mascolina, un’amazzone guerriera pronta a tutto, anche, ahimè, a un seminudo forzato verso la fine. Annibale Pavone ci consegna un Brighella vigoroso e dal gran ritmo, sempre in scena, accompagna personaggi e spettatori all’interno dell’hotel, un vero padrone di casa. Lucia Pereza Rios è sorprendente, serva-padrona della scena, interpreta impeccabilmente una Smeraldina odierna, che incanta in un monologo evanescente quanto puro di energia e verità.

Ponzio e Latella dimostrano coraggio e forza nell’affrontare un lavoro di ricerca su di un testo quasi intoccabile, seguendo il filone, un po’ al limite, dell’incesto e della bisessualità. Una traccia che apporta note noir e di mistero alla pièce, perfettamente supportata da un buon impianto sonoro e luminoso. La vera rivoluzione, spesso citata nel testo, non è quella goldoniana, ma bensì quella che avviene sulla scena, dove a colpi di battute, gesti e movimenti, la Commedia e la menzogna decadono, lasciando vuoto il palcoscenico, metafora desolante dei nostri giorni.

In conclusione, visto dalla parte del pubblico, viene comunque da chiedersi il perchè Ponzio e Latella non abbiamo scritto un testo nuovo di zecca, invece di mettere così tanto la mano su di un capolavoro, finendo per stravolgerlo. Che si tratti della notorietà dell’opera, che celatamente di riflesso indirizza il pubblico al botteghino? Nonostante la demolizione sulla scena, spunta fuori lo zampino di Arlecchino. Arlecchi? Si!

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