
Una stanza immersa nel silenzio, un letto con una ragazza nuda completamente abbandonata al sonno. Questo il rifugio di uomini anziani che Yasunari Kawabata racconta ne La casa delle belle addormentate.
Pagano per stendersi accanto a corpi giovani e turgidi, ma soprattutto accanto a occhi chiusi, che non possono giudicare. Un bordello che riporta alla mente quello di Gabriel García Márquez in Memoria delle mie puttane tristi. La pelle liscia, le labbra socchiuse, il profumo, sono tutti sentieri da percorrere con cautela, sfiorando appena, ritrovando le strade perdute della memoria. Luoghi in cui si è amato una geisha, infiammato lenzuola di passione. Tutto ritorna come le onde che sbattono fuori dalla finestra in quella casa a picco sulla scogliera.
Le giovani donne si nutrono di pesanti sonniferi, sembra che siano semicoscienti nei loro moviementi appena accennati, viene voglia di scuoterle, di sfidare il loro silenzio e mettersi in gioco per vedere cosa accade di fronte agli occhi che si aprono, come cambierebbe l’espressione del viso che riposa ignaro.
“La purezza delle ragazze rispecchiava inversamente la bruttezza dei vecchi”, per questo alla fine il protagonista si limita a guardare, a mischiare il suo sonno con quello dell’altro corpo, in un contatto che non ha niente di umano, ma che diventa sempre più indispensabile.
Non rimane che imaginare la voce delle fanciulle supine, indovinarne i sogni, prendere come un nettare la giovinezza dalla loro immobilità e allo stesso tempo guardarle come corpi morti, esposti per il solo piacere di acquietare la solitudine. Cosa si va a fare nella casa delle belle addormentate? Forse a cercare l’eternità dentro un sonno che non ci fa più invecchiare.