
S’avvicina, Medea, al palcoscenico risalendo la platea, le guardie riferiscono al Re Creonte che qualcuno – non sanno chi – si sta minacciosamente approssimando al Palazzo: a coprirle il volto la maga ha una sorta di Tarnhelm di maglia d’oro, del tutto simile – anche nella sostanza, oltre che nella forma – a quello di wagneriana memoria. Lo appende, Medea, ai piedi del boccascena, a due robusti chiodi: maschera dietro cui nascondere le proprie intenzioni – ma pure strumento teatrale che permette all’attore di diventare personaggio – rimarrà lì per tutta la durata della prima parte, nella seconda – il tempo della dissimulazione e del tormento – tornerà in scena; solo alla fine, un attimo prima dell’apocalisse finale, la protagonista lo rimetterà sul volto, dando appuntamento a Giasone in riva allo Stige, come Tosca a Scarpia, davanti a Dio. Perché, al contrario che in Euripide, questa Medea reinventata da Luigi Cherubini non sale, alla fine, sul Carro del Sole, sottratta per sempre alle beghe umane: brucia, invece, col fuoco purificatore, il Palazzo del Potere, che avvenga con una torcia o con una conflagrazione di mondi poco importa, il senso, in tutta evidenza, è sempre esattamente lo stesso.
È un significativo stralcio della complessa drammaturgia ideata da Mario Martone per Medea, rappresentazione dell’opera di Luigi Cherubini che ha aperto la nuova Stagione del Teatro San Carlo, dove incredibilmente non era mai andata in scena: un’opera nuova, per il nostro Teatro, vecchia di più di duecento anni! E sì che Luigi Cherubini non è certamente uno qualunque: amatissimo da Beethoven, dice la leggenda che Johannes Brahms volle portare con sé nella tomba proprio la partitura di Médée del musicista italiano, da lui considerato modello di perfezione compositiva, ammirando la sua chiarezza formale e il contrappunto, elementi che Brahms cercò di integrare nel suo lavoro. Un mito, dunque.
Quando, fiorentino ma fortemente debitore della Scuola napoletana, approdò a Parigi, trovò nella Ville Lumière l’humus necessario alla sua affermazione: la vita teatrale, intorno agli anni cruciali della Rivoluzione, era estremamente vivace e quando la sua Médée debuttò al Théâtre Feydeau, nel 1797, in pieno clima post-rivoluzionario, segnato da grandi tensioni politiche, morali e istituzionali, il gusto teatrale del pubblico francese era attratto da vicende forti, estreme e dai conflitti morali laceranti: la riscrittura del mito di Medea era perfettamente in linea con questa sensibilità. Alla prima, tuttavia, Médée ottenne un successo moderato, per divenire opera di culto nel XIX secolo fra i compositori, più che presso il grande pubblico. Fu tuttavia nel Novecento che è stata finalmente riconosciuta come tragedia musicale di enorme potenza moderna, sicuramente uno dei momenti più alti del teatro musicale tra Classicismo e Romanticismo, opera che anticipa le tecniche di caratterizzazione psicologica della vocalità ottocentesca.
Perché costruisce il tragico attraverso psicologia e ritmo, non solo attraverso il mito, realizza una fusione di parola e musica che guarda al futuro del melodramma romantico e offre una figura femminile complessa, terribile, ma profondamente umana: diventa, in tal modo, ineludibile punto di snodo tra la razionalità musicale illuministica e l’irruzione dell’emozione preromantica. La figura di Medea è, infatti, un perdurante mito a sé, maga infelice e straniera la cui vicenda riesce a far emergere tutte le contraddizioni della presunta superiorità della civiltà greca (e occidentale in genere), la messa al bando e l’ostracismo da parte della polis civile e ordinata, l’ostinata e cieca ricerca di moderazione (e quanto costa in umanità l’olimpica sicurezza e tranquillità), la mentalità – diremmo noi – piccolo borghese dell’eroe protagonista in cerca, in fondo, solo d’una buona sistemazione: Medea non capisce, Medea non ci sta, Medea reagisce nel peggiore dei modi, con una ritorsione spropositata, al limite della comprensione umana.
Certo, mi piace pensare che abbia ragione Robert Graves, suggestivamente affermando la storica(?) verità d’una Medea commissionata (quindici talenti d’argento il prezzo, che tanto ricordano l’esborso d’altro e più famoso tradimento) al Maestro Euripide dalla città di Corinto, per far ricadere la colpa dell’omicidio dei figli di Giasone e dei misfatti di Re Creonte sulla strega straniera, e mai macchina mediatica fu così efficace, mai menzogna detta così bene, tanto che già ai tempi di Seneca – primo di tanti a rimeditar sulla tragedia – il nome era diventato comune sostantivo ad indicar la madre che uccide i figli, distogliendo così – arma perfetta di distrazione di massa – l’attenzione dalla verità, oscena miscela invece di razzismo e sessismo violento, ch’avrebbe, in mancanza d’Euripide, diversamente colorato l’alba della civiltà greca: tuttavia, proprio perché mette in luce, per chi le sa vedere e leggere, le perenni contraddizioni del potere, Medea acquista l’eternità, ch’è sempreverde contemporaneità: il suo fascino continua ad attraversare i secoli fino a noi.

E non poteva allora essere che affidata a Mario Martone la regia di un’opera simile: da sempre il regista napoletano ha dimestichezza col mito classico, potremmo dire, anzi, che questo costituisce da sempre una delle basi fondanti del suo mestiere di mettere in scena l’intimità del male, trasformando il racconto del mito da narrazione fondativa a romanzo della coscienza, dove il passato classico parla direttamente alle fratture emotive e politiche del presente, storia umana di carne e sangue da abitare dall’interno. Corinto e il suo Palazzo, regno di Creonte, ci appare, allora, filtrato attraverso la gestione degli spazi di Martone e le matite di Carmine Guarino sotto le specie del Tjolöholm Castle, gran villa signorile in revival Tudor, com’era nel gusto della Belle Époque, mescolando elementi del Rinascimento inglese col senso pratico della fine del Secolo Romantico.
È il maniero dove fu girato il film Melancholia, alla cui potenza visionaria – e non solo – esplicitamente il regista napoletano ammette di essersi ispirato: non ci mette molto, la villa, a rivelarsi infatti per ciò che è, pretenziosa magione d’arricchiti che imita l’antico senza riuscire a coglierne l’essenza, kitsch assurto a farlocco decoro borghese, nulla più che scatola teatrale, elegante prigione destinata a dissolversi mostrando l’inadeguatezza delle strutture sociali davanti al caos interiore. Colpiscono gli ampi giardini all’inglese, paesaggio naturale ma molto curato che circonda il Palazzo e che contribuisce all’atmosfera sospesa tra eleganza borghese e suggestione inquietante che caratterizza soprattutto la prima parte: gli alberi potati che circondano la scena – con la loro simmetria artificiale – ben isolati e disciplinati aiutano a dare una sensazione sia di ordine sociale (è il matrimonio perfetto di Giasone con la giovane principessa, contrapposto a quello imperfetto con la maga straniera) sia di inquietudine sottile.
La disposizione spaziale del parco rafforza, infatti, il senso di isolamento psicologico dei personaggi: una natura addomesticata, in tutto subordinata all’estetica e al possesso umano, in termini simbolici rafforza l’illusione che la natura sia governabile, controllata. Il matrimonio stesso, alla fine, ci appare per ciò che è, rituale vuoto, fiera della felicità obbligatoria tra rievocazioni burlesche dell’impresa del vello d’oro e frivolezze sparse che non tardano a colorarsi sinistramente, anche agli occhi di Glauce, evocando presagi funesti che inevitabilmente richiamano alla memoria dei presenti la fuga, avvenuta anni prima, di Medea e Giasone, dalla Colchide – regno di Medea e dell’irrazionale, del matriarcato, dei sacrifici umani, della magia, del dionisiaco – per approdare alla città di Corinto, allegoria dell’Occidente e della modernità, della legge e della ragione, dell’apollineo e della bellezza, in qualche modo il loro viaggio è anche figura e metafora di quel che l’Occidente, la sua cultura, la sua civiltà ha da sempre considerato suo irrinunciabile feticcio, la missione di portare – imporre – se stesso al mondo, ciò battezzando, di volta in volta, sviluppo, religione, democrazia. E adesso tutto questo non basta più.
Si apre, nella seconda parte, la scena, invece, al caos primordiale del Mare, l’olimpica, imperturbata sicurezza del potere e del controllo si incrina, oltre quel mare c’è la Colchide, patria di Medea, terra dell’irrazionale e della magia, consentendo una gestione – e una visione – friedrichiana degli spazi: il palcoscenico, utilizzato in tutta la sua profondità – e allargato anche alla platea – consente l’uso della figura umana isolata di fronte a spazi smisurati, la natura diventa specchio dell’abisso interiore, luogo di rivelazione interiore, spazio simbolico in cui l’uomo misura il proprio limite.
L’auriga di Delfi e il suo doppio son ciò che rimane di ciò che chiamiamo civiltà, feticci enigmatici, testimoni della nostra impotenza di fronte agli eventi, suscitando, per citare Ardengo Soffici, un senso strano di sogno e rimembranza poetica, mentre compaiono, in cielo, segni inequivocabili, affascinanti e terribili insieme, la depressione di Medea, la mancata elaborazione del lutto dovuto alla perdita di Giasone, ci riporta improvvisamente ad una natura selvaggia e sublime in inquieta attesa di un ignoto trascendente. Il Palazzo non c’è più, accanto alla luna, affascinante e terrificante insieme, il pianeta che si avvicina alla Terra non è un nemico esterno, ma epifania del reale, verità cosmica che smaschera l’illusione della vita sociale e del suo stereotipato controllo, alla fine concetti come colpa, redenzione o punizione perdono il loro significato, l’apocalisse è neutra, quasi necessaria, assumendo addirittura, in Medea, la depressione omicida senso estremo di conoscenza tragica, in lei (ri)prendendo il significato rinascimentale di melancholia (si pensi a Dürer) come accesso privilegiato alla verità.

Riccardo Frizza, che ormai stiamo imparando, qui a Napoli, a conoscere bene, non dirige semplicemente Cherubini: lo interroga, la sua bacchetta non cerca il fragore né l’enfasi monumentale; al contrario, lavora come uno scalpello, scavando nelle nervature della partitura per riportarla a uno stato di tensione morale prima ancora che teatrale. La scelta fondamentale è chiara sin dall’ouverture: Frizza rifiuta ogni tentazione “proto-romantica” troppo espansiva e restituisce Cherubini come compositore dell’angoscia lucida, della tragedia che avanza per accumulo, non per esplosione. L’orchestra non anticipa il dramma: lo trattiene, lo fa maturare lentamente, come una sostanza instabile che non può che detonare.
Nei momenti chiave – l’atto III in particolare – l’orchestra sembra respirare con Medea, ma senza mai indulgere in un’empatia sentimentale. È una presenza implacabile, che osserva la protagonista mentre si autodistrugge, e allo stesso tempo la spinge verso l’irreparabile. Qui Frizza mostra uno dei suoi tratti più maturi: la capacità di fare teatro senza far rumore, la violenza non è mai sonora, ma strutturale. Uno degli aspetti più notevoli di questo Direttore è poi il controllo del tempo: Frizza dilata, sospende, trattiene, i tempi non sono mai comodi, sempre tuttavia necessari. Ogni pausa pesa, ogni attacco arriva come una decisione irrevocabile, questo tempo “non lirico” crea una tensione continua tra palcoscenico e buca: i cantanti non possono adagiarsi, devono abitare il rischio, stare dentro una partitura che li costringe a pensare, non solo a esprimere. In questo senso, Frizza è perfettamente allineato alla regia di Martone: entrambi sembrano voler negare allo spettatore qualsiasi consolazione melodrammatica, perché la musica non salva, la musica giudica.
E allo stesso modo il Coro, diretto da Fabrizio Cassi, in questa Medea non è sfondo, diventa sotto gli occhi nostri corpo sociale inquieto, massa che respira e si muove come un organismo nervoso. Martone lo espone, lo frammenta nello spazio, lo costringe a uscire dal rifugio rassicurante della frontalità; Frizza lo tiene serrato, vigile, sempre sull’orlo della tensione: tra questi due vettori il Coro ne esce alla fine vincitore, compensando l’una con l’altra esigenza, in modo esemplare. Il suono, allora, non è levigato in senso edonistico: è ruvido quando deve esserlo, compatto nelle invocazioni collettive, nervoso nelle transizioni e anche le voci femminili, talvolta meno omogenee, finiscono per rafforzare il senso di instabilità emotiva, d’inquietudine nevrotica che attraversa l’opera.
Non un coro bello in senso ornamentale, ma un coro necessario, che pesa sulla scena come la coscienza della città, incapace di fermare la tragedia ma costretta ad assistervi: perché questa Medea funziona anche – e forse soprattutto – perché non esistono ruoli lasciati al margine, il coro è coscienza collettiva, i comprimari sono ingranaggi drammatici essenziali, le figure femminili secondarie costruiscono un contrappunto emotivo che amplifica la tragedia della protagonista, un cast pensato non per brillare individualmente, ma per incastrarsi in un disegno tragico unitario, dove ogni voce, ogni presenza, contribuisce a rendere inevitabile l’orrore finale.
Così è anche nel caso di Giacomo Mercaldo, artista proprio del Coro del San Carlo che qui ricopre il ruolo breve, ma nitidamente inciso, del Capo della Guardia che entra in scena con funzionalità teatrale impeccabile: voce ferma, dizione chiara, presenza credibile. Non cerca caratterizzazioni inutili, ma svolge il suo compito con precisione, contribuendo alla sensazione di un mondo ordinato che tenta – invano – di contenere il disastro.

La Medea di Sondra Radvanovsky non è costruita come un monumento vocale da contemplare, ma come un corpo drammatico sempre in atto, costantemente esposto. La voce – ampia, stratificata, talvolta volutamente ruvida – non cerca l’ideale classico di bellezza astratta: diventa materia emotiva, nervo scoperto. Non c’è compiacimento nel suono; c’è piuttosto una volontà di dire tutto, anche a costo di incrinare la superficie. Radvanovsky canta Medea dal centro del conflitto, non dall’alto del mito: il fraseggio è spesso spezzato, scavato, quasi parlato nei recitativi, come se la parola precedesse la musica e la costringesse a seguirla, gli acuti, quando arrivano, non sono mai esibizione ma esplosione necessaria, esito di una pressione interna che non può più essere contenuta.
Anche i momenti di lirismo non concedono tregua: il canto resta teso, vigilante, come se Medea non potesse mai permettersi di abbandonarsi davvero. Scenicamente, Radvanovsky non “interpreta” la follia: la attraversa. Il corpo è pesante, radicato, segnato; ogni gesto sembra costare fatica, come se il personaggio fosse già consumato prima ancora di agire. In questa lettura, Medea non è una furia improvvisa, ma una donna che ha già attraversato la distruzione e la porta addosso come una cicatrice permanente, umana fino all’insostenibile: non chiede comprensione, ma impone ascolto. E proprio per questo, nel finale, l’orrore non è mai teatrale in senso decorativo, bensì intimo, quasi soffocante. Seduto in platea sulla sua poltroncina rossa lo spettatore non assiste: è chiamato, irresistibilmente, a restare.
Francesco Demuro incarna un Giasone che non è pensato come antagonista titanico di Medea, ma come figura in progressiva sottrazione. Vocalmente corretto, musicalmente rifinito, il personaggio appare volutamente meno “inciso” rispetto alla protagonista: una scelta che rispecchia la drammaturgia di Martone e la lettura musicale complessiva. La linea di canto è elegante, controllata, spesso levigata; ma proprio questa compostezza diventa segno narrativo: Demuro canta bene, sì, ma non brucia. Il fraseggio è nobile, talora distaccato, come se il personaggio parlasse sempre da una posizione di difesa, evitando l’esposizione emotiva che invece travolge Medea. Nei confronti diretti, la voce non cerca lo scontro frontale: tende piuttosto a eludere, a smussare, a razionalizzare e scenicamente Giasone è un uomo che arretra mentre la tragedia avanza. Non domina lo spazio, non lo conquista: lo subisce, anche nei momenti di autorità il gesto resta misurato, quasi esitante, come se la sua forza fosse più sociale che interiore.
Questo lo rende credibile non come “traditore melodrammatico”, ma come figura moralmente debole, incapace di sostenere le conseguenze delle proprie scelte, in cerca, come dicevamo, di una conveniente sistemazione. Il risultato è un Giasone tragicamente insufficiente: non vile, ma inadeguato. E proprio questa inadeguatezza, posta in contrasto con la sovra-esposizione emotiva di Medea, rafforza l’asimmetria che impera, centrale, nel cuore dell’opera e che costituisce gran parte del suo fascino: non due giganti che si affrontano, ma una donna che precipita nell’abisso e un uomo che non sa – o non vuole – seguirla, nemmeno con lo sguardo.
Giorgi Manoshvili è un Creonte non già tiranno caricaturale né un padre sentimentale: è un uomo di potere che parla con il peso della legge addosso. La voce ampia, scura, ben proiettata costruisce una figura autorevole senza mai urlare il comando, scenicamente è saldo, quasi immobile, e proprio per questo inquietante: ogni parola sembra definitiva, ogni gesto calibrato. È un Creonte che sembra già consapevole della catastrofe, e proprio per questo tenta invano di contenerla, personaggio che funziona perché non compete con Medea, ma le si oppone su un altro piano: quello della legge, dell’ordine, della ragione di Stato. E perde.
Anita Rachvelishvili dà vita a una Néris ombra fedele, presenza scura che accompagna Medea come un doppio silenzioso. La voce, profonda e materica, sembra scavare più che cantare, soprattutto nell’aria Solo un pianto, che diventa un momento di sospensione emotiva assoluta. Non c’è compiacimento nel colore grave, né ricerca dell’effetto: tutto è piegato al dolore trattenuto, alla compassione muta. È una Néris che non consola, ma condivide; non giudica, ma resta: drammaturgicamente è uno dei pilastri dello spettacolo, l’unica vera testimone della catastrofe.
La Glauce di Désirée Giove non è la rivale frivola che t’aspetteresti, ma una creatura fragile, luminosa e inconsapevole, la voce ha una qualità chiara, mobile, che si muove con naturalezza nella scrittura di Cherubini, senza forzature. Non cerca il contrasto diretto con Medea sul piano vocale – sarebbe una battaglia persa – ma costruisce un personaggio per sottrazione: dolcezza, grazia, un filo di ingenua felicità. Proprio questa leggerezza diventa tragica, perché la rende vulnerabile, quasi predestinata: è una Glauce che non provoca, e proprio per questo paga.
Avevamo già apprezzato Désirée Giove perché, giovane e promettente artista ex allieva dell’Accademia del San Carlo, aveva partecipato in ruoli minori a varie produzioni della passata Stagione, oltre che protagonista di un delizioso Matrimonio segreto: stasera, oltre lei in primo piano, sono presenti anche altre due giovani artiste di quella stessa nidiata che nel nostro Teatro si sono formate. Le ancelle di Glauce sono infatti Maria Knihnytska e Anastasiia Sagaidak: più che semplici figure di contorno, diventano riflessi della giovinezza e della normalità che circondano Glauce, le voci sono ben amalgamate, fresche, disciplinate; la presenza scenica è attenta, partecipe, mai distratta.
In un allestimento come questo, dove nulla è casuale, il loro contributo è quello di rendere credibile il quotidiano che Medea sta per annientare, sono piccole luci prima dell’oscurità. E ci piace pensare, allora, che il titolo dato a questa Stagione Sancarliana proprio a queste giovani voci sia dedicato, Be luminous è un invito – e un augurio – a risplendere sempre, come stasera, perché restino, il Teatro e la Musica, tramite loro, portatrici di luce in un mondo che sempre più si fa oscuro.














