
Cappotti, giacche e altri vestiti buttati alla rinfusa su quattro sedie rivolte verso il fondo del palco, una scenografia essenziale e minimalista per lo spettacolo “In fondo agli occhi” dell’interessante VIE festival, importante appuntamento per teatro danza e musica a Modena. Questa rassegna attira, e lo fa da diversi anni, molti artisti e registi di fama nazionale ed internazionale costituendo la prima, e qualche volta l’unica, tappa della loro tournee italiana. In questa imperdibile kermesse modenese si inserisce questo spettacolo, al debutto in prima assoluta, del regista argentino Cesar Brie, sempre in prima fila sul fronte della sperimentazione e della ricerca in teatro, reduce da molte esperienze internazionali e da poco “naturalizzato” italiano.
Il buio iniziale, troppo lungo per la verità, è rotto da Gianfranco Berardi, un ragazzo in mutande in piedi su un tavolino che ci spara contro, ad un ritmo rap molto serrato, una serie di sentenze, di verità, di dubbi e di certezze sul modo in cui viviamo e sul paese in cui abitiamo: è cinico, reale, vivo ma al tempo stesso sfiduciato, pieno di energie ma sommerso dalla negatività e nella disperazione. Fa la parte di Tiresia, un cieco che bazzica nel bar di Italia, interpretata da Gabriella Casolari.
Personalmente non mi informo quasi mai riguardo uno spettacolo che andrò a vedere, preferisco non sapere chi sono gli attori, il regista e la tematica principale. In questo modo non mi creo false aspettative e spero di cogliere maggiormente i messaggi secondari di un’opera teatrale, non soffermandomi soltanto su quelli che “so che ci devono essere”. Immaginatevi quindi il mio stupore nello scoprire che il bravissimo Gianfranco Berardi, che nello spettacolo fa la parte di Tiresia, è realmente cieco dall’età di 19 anni! Non mi vergogno ad ammettere che durante lo spettacolo ho pensato: “fanno fare il ruolo di un cieco ad un vedente, scelta particolare!”. E’ stato un vero choc: Berardi, coinvolgente e travolgente, si è mosso nel bar di Italia come se fosse a casa sua, con movimenti precisi e sicuri, lo conosceva benissimo, cieco in uno Stato di ciechi, urlandoci contro: “i ciechi siete voi!”. La sua malattia è la nostra, incapaci come siamo di vedere in che stato siamo e in che Stato, l’Italia, viviamo, ciechi di fronte all’evidenza. Non possiamo nemmeno ribellarci: “sei ricco? No, sei mafioso? No, allora non puoi fare niente!”. Il messaggio, sebbene un po’ populista, è forte: l’uomo non ha possibilità di evolvere e di migliorarsi, “se sei ricco bene, altrimenti peggio per te”, e si finisce quindi ad invidiare il calciatore in nazionale o la velina di turno, senza peraltro avere chance di raggiungerli.
Questi ragionamenti forse un po’ superficiali, che abbrutiscono l’uomo all’ “avere o non avere” e che potrebbero definirsi “discorsi da bar”, sono appunto stati raccolti dagli autori del testo, i due bravi attori che lo interpretano, nei bar di tutta Italia, da nord a sud, nei passati due anni. Poi un’attenta rielaborazione di queste testimonianze ha fatto emergere con forza la rassegnazione che abbraccia anche Italia, donna in crisi, tradita dal marito e imbrogliata da tutti, ormai rassegnata a fuggire, chissà poi dove. Il paragone con il nostro paese Italia è sottile quanto graffiante: l’Italia è allo sbando, “in questo paese ci vuole talento per essere mediocri”, e dove l’unica soluzione possibile è l’evasione, anche attraverso i computer e internet, dalla vita reale. Ma la fuga non è la soluzione, dato che “la monotonia è tua e te la porteresti con te”.
Allo stesso tempo la cecità è però rassicurante, giustifica l’uomo, “è una pacchia essere ciechi!”, “non vivo di emozione, vivo con la pensione”; la malattia garantisce al protagonista le amorevoli cure di Italia, che gli mette perfino il borotalco nelle mutande come si fa ai bambini (forse una critica all’assistenzialismo?), ma eviscera anche il lato più umano e vero del malato, il legame con chi si prende cura di lui, al quale egli non rinuncerebbe mai: “non darei queste tenebre per tutta la luce del mondo”.
Il tocco registico di Brie si vede in molte scene azzeccate e nel mai banale uso degli oggetti, come i chicchi di sale usati come se fossero lacrime, fatti sgorgare dagli occhi di lui, raccolti e successivamente fatti sgorgare dagli occhi di lei, segno che la sofferenza dell’uomo rimane sempre la stessa, passa soltanto da un individuo all’altro. Interessante anche il finale, con l’incessante passaggio del tempo accompagnato dalla musica “everyday” in sottofondo, fino alla morte.
Uno spettacolo che in certi punti fa ridere ma amaramente, che fa pensare e riflettere e che colpisce a testa bassa cercando di scuoterci dal nostro torpore.