[rating=5] “La natura fugge la tristezza, la natura va verso il piacere e il piacere delle cose sensuali tra amici fiorisce meglio. Cosa c’è di meglio che rievocare le cose dell’amore e raccontarsele? Ho fatto così, lui mi ha fatto cosà…”. Parola di Celestina, protagonista e anima dell’omonimo spettacolo (ri)scritto e diretto dal mitologico Luca Ronconi. Andato per la prima volta in scena al Piccolo Teatro di Milano la sera del 30 gennaio, Celestina è tratto dal testo drammaturgico del canadese Michel Garneau, il quale ha a sua volta “ridotto” il capolavoro della letteratura spagnola di Fernando de Rojas dal titolo La Celestina (1499).
A un anno dal ciclo di rappresentazioni de Il Panico – per il quale, tra le altre cose, ha vinto il Premio Ubu 2013 – Luca Ronconi torna alla regia al Piccolo con uno spettacolo audace e intenso, una “favola tragica” che infrange i sogni di una qualsiasi stilizzazione ideale della società. Lo stile registico del Gran Luca è sempre quello monumentale e pungente di sempre, arricchito però di una freschezza d’invenzione già sperimentata ne Il Panico. Proprio da quest’ultimo, tra l’altro, Ronconi riprende e riadatta alla pièce quel palco obliquo e frammentato che potremmo definire un’eredità “iperbolica” delle scenografie metonimiche che furono il marchio di fabbrica di Giorgio Strehler e del Piccolo Teatro di Milano negli Anni ’70 e ‘80. Una distesa movibile di porte e anfratti, che all’occorrenza si innalzano, si aprono, si chiudono, si palesano e poi scompaiono. La pedana rialzata che si staglia sul fondale, poi, segna l’extra-scena.
Chi si trova lassù osserva e non è osservato, magari mentre fugge o architetta loschi piani. Una scenografia fissa eppure “mobile”, concreta e insieme metaforica, capace di disegnare idealmente spazi (e perfino mura) di rappresentazione anche lontani e diversissimi fra loro. Ecco come è possibile assistere nello stesso metro quadrato di palco a una scena che si svolge sul letto in casa di Calisto e subito dopo a un dialogo nella dimora di Celestina, “laggiù vicino alle concerie in riva al fiume”. Questa stessa formula, nel testo, spesso sostituisce lo stesso nome della protagonista. E sopravvive a lei, assassinata nella seconda metà della (tragi)commedia. Evocazione e insieme riferimento concreto per tutti i personaggi, il luogo delle “concerie” alla periferia della civiltà rappresenta il margine tra la vita umana con le sue scelte (e impulsi) e il fiume di fuoco dell’inferno. Un inferno che risulta sdoppiato sopra e sotto il palcoscenico, che col suo labirinto di botole e voragini lascia che la passione carnale consumi gli animi degli “innamorati” mentre sotto di loro l’altro inferno divora i servi e le “ragazze” di Celestina. La sua maschera glabra e livida – evidenziata da un trucco essenziale quanto efficace – che col suo sorriso vermiglio irrompe nell’azione nel silenzio più assoluto, giunto dopo un flusso ininterrotto di parole.
La studiosa Ann Ubersfeld sosteneva che il rapporto fra la rappresentazione e il suo spazio finisce per comprendere anche il rapporto attori-spettatori. Qui la quarta parete si sente, ma è “leggera”. L’intero spettacolo è un inno al valore della soglia, intesa sia come cesura tra pubblico e privato (che si materializza nelle porte “a comparsa”) sia come interspazio immaginario fra interprete e spettatore. Complice anche un tempo della rappresentazione sfuggente, mai intercettabile se non fosse per i riferimenti testuali nei dialoghi.
E se è vero che il rapporto tra testo drammaturgico e rappresentazione viene definito tradizionalmente “interpretazione”, è altrettanto vero che l’operazione compiuta da Ronconi fa un ulteriore passo in avanti. E forse anche due. Il regista nato a Sousse (Tunisia) ci offre un esempio che va oltre il teatro di regia: il lavoro primario è a monte, al testo di partenza, alla parola. Fernando de Rojas e Michel Garneau affrontano un tema, quello erotico, dal quale il Gran Luca si era sempre tenuto alla larga. “Quello che i personaggi chiamano “amore” è una cosa diversissima per tutti quanti”, afferma. Non c’è nessuna intesa fra di loro sul significato dell’amore, se non per quello puramente fisico, del mero desiderio, che intacca anche la sfera della religione. Calisto (interpretato in maniera mirabile da Paolo Pierobon) in preda alla sua malattia d’eros, vede in apertura di spettacolo il corpo nudo e senza vita di Melibea (una fantastica Lucrezia Guidone) nel suo giardino e crede di vedere Dio. E per tutto il resto dell’azione, egli sembra prendere sempre più consapevolezza che il suo Dio, il suo angelo, il suo idolo è visibile, tangibile, persino penetrabile. La parabola degli epiteti amorosi di Calisto dà la cifra dell’iperbole terribile dettata dal suo impulso carnale: Dio, angelo, pollastra. Dopo aver appagato il desiderio, Calisto ritorna “vuoto” e vede Melibea per quella che è, o meglio per quella che è stata per lui: una pollastra da deflorare.
L’atto dell’appagamento del desiderio lo fa guarire dalla sua malattia d’amore. Ed è qui che comincia l’inferno: servi che muoiono dopo aver provocato morte a loro volta, sicari che godono nell’uccidere e, infine, Melibea che si suicida. Il termine appagamento, in questo senso, diventa una parola chiave, perché coniuga le sfere di denaro e piacere. Entrambi vissuti in modo sproporzionato, tant’è che Sempronio e Parmeno (Fabrizio Falco) arrivano a uccidere Celestina per “appagare” la loro sete di compenso. Un’eredità plautina, senza dubbio. Basti pensare che uno dei servi si chiama Sosia, proprio come il domestico dell’Amphitruo. Ma al di là della vivezza talora fescennina delle battute, ciò che più si accosta all’opera del drammaturgo latino è la figura di Sempronio (interpretato da un bravissimo Fausto Russo Alesi): alieno in un mondo a lui sconosciuto, una sorta di Don Chisciotte a difesa di una classicità morente, ormai inapplicabile. Il suo personaggio risulta uno dei più ricchi, nel quale macchinazione e avidità giocano a protezione di un qualcosa di più profondo. Melibea ha la funzione attanziale di strappare il padrone al suo servo. L’unico antidoto al dolore, a questa perdita della centralità è il denaro. In quest’ottica l’approccio alla commedia di Ronconi si differenzia da quello moralista di de Rojas e nichilista di Garneau. Va la di là delle note fondamentali del costume spagnolo della ragazza nobile sorvegliata, quasi reclusa, con una dedizione (quasi “araba”) all’amante riamato. Perfino al livello dei costumi tutto questo è evidente. Le vesti di Celestina, ad esempio, risultano “neutre”, perché nascondono la sua natura di prostituta (inaccettabile in case nobili) senza appesantirne il ruolo di primo piano.
Maria Paiato, poi, fa tutto il resto. Verace e insieme ingannatrice nei suoi racconti, l’attrice riesce nell’ardua impresa di restituire al pubblico la natura di un personaggio motore e vittima dell’azione. È doveroso sottolineare, però, che tutto il cast si è dimostrato all’altezza dell’operazione di Luca Ronconi giocata sul dualismo psicologico e funzionale degli attanti. La prova dei vari Giovanni Crippa (Plebeo, padre di Melibea), Licia Lanera (Elicia), Lucia Marinsalta (Lucrezia), Lucia Lavia (Areusa), Pierluigi Corallo (Centurione), Gabriele Falsetta (Tristano) e Riccardo Bini (Sosia) risulta convincente e, di più, impeccabile. Una messinscena sublime, che riesce a esorcizzare lo straniamento tra nudi integrali e dialoghi (ironicamente) amletici. E regalando perfino nel dopo-spettacolo una delle sue emozioni più grandi: il saluto al pubblico del maestro Luca Ronconi ai suoi discepoli milanesi. Una forma d’amore, a suo modo. Perché è questo che fanno i padri. Applausi. E se non bastassero, ancora altri.
“Ma al di là della vivezza talora fescennina delle battute”… diciamo che la recensione non invita il pubblico “comune” ad andare a vedere lo spettacolo. Servirebbe un pò di semplicità in più e meno autocompiacimento. Io ho visto lo spettacolo e l’ho trovato semplicemente lungo, monotono e noioso.
A dir poco raccapricciante e davvero osceno: capisco l’intento del regista ma non giustifico la scelta di rappresentare scene cosí osé. Lo sconsiglio vivamente.