Home Teatro Il peso insopportabile della colpa: Delitto e castigo al Teatro in Portico

Il peso insopportabile della colpa: Delitto e castigo al Teatro in Portico

La storia di un’anima e di una coscienza che si dividono e non si ritrovano più

“Gli uomini si dividono in ordinari e straordinari. Quelli ordinari, devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d’essere straordinari.”

Ci vuole coraggio per sopportare il peso di una grave colpa e questo Dostoevskij lo sapeva bene. E la sua opera più letta, Delitto e castigo, ovviamente riadattata, porta sul palco il conflitto interiore del protagonista, Rodion Romanovič Raskolnikov. A metterla in scena, al Teatro in Portico a Roma, sei attori: Daniele Di Martino (Raskolnikov), Danilo Fiorentini (Kock), Nicoletta Conti (l’usuraia), Greta Civitareale (Sonja), Antonello Gualano (Porfirij), Francesco Vitiello (Rasumichin), con la regia di Antonello Gualano.

È la storia di un’anima che si stacca dalla coscienza e che non riesce a sopportare il peso del grave atto commesso: l’omicidio di una donna, seppur definita “strega cattiva, vecchia usuraia”. È un romanzo scritto nel lontano 1866, ma sempre attuale, moderno e senza tempo.

Un giovane molto povero e pieno di debiti uccide un’anziana e meschina usuraia. L’omicidio crea in Raskolnikov un conflitto, una sorta di doppia personalità. Da un lato cerca di autoconvincersi del fatto che il delitto costituisca la dimostrazione della sua appartenenza ad una categoria superiore, quella degli uomini grandi – come Napoleone – autorizzati ad agire al di sopra della legge, perché tutte le loro azioni hanno come scopo il bene collettivo. Dall’altro lato invece, emerge nella sua coscienza la certezza del peso del senso di colpa e la paura di essere arrestato. E l’omicidio è duplice: quello premeditato dell’usuraia e quello imprevisto di sua sorella più giovane, un’anima buona, per sua sfortuna comparsa sulla scena del delitto appena compiuto. E gli effetti che produrrà questa duplice colpa non sono solo psicologici e mentali, ma anche fisici. Infatti, soffre sempre di una febbre inspiegabile. E più l’angoscia aumenta e più sale la febbre. E si aggira disperato sul palco, come se, fare avanti e indietro potesse servire ad alleggerire il fardello interiore. Ed è su questa debolezza che gioca Porfirij Petrovič, il giudice istruttore, che lo incontra per la prima volta in compagnia di Kock e del suo unico amico Rasumichin e lo guida verso la confessione. Nonostante la mancanza di prove, è sicuro, dopo diverse conversazioni con lui, che Raskolnikov sia l’omicida e cerca di farlo confessare spontaneamente. La sua abilità oratoria, l’uso diabolico della diversione, della dissimulazione, la sua stessa contraddizione e il sottinteso gli permettono, alla fine, quasi di prevalere sul protagonista. E a spingerlo a confessarsi anche Sonja, una ragazza molto religiosa, generosa, costretta a prostituirsi perché povera.

Ad un certo punto il giovane non riesce più a tenersi dentro il segreto del delitto; è logorato, dilaniato dal silenzio e dal rendersi conto dell’atrocità commessa e lo confessa alla ragazza. Comincia anche ad avere delle allucinazioni, vede la vecchia usuraia che sghignazza, proprio come in vita, sempre con la battuta pronta e la cattiveria in tasca.

Ma dire la verità a Sonja non sarà sufficiente, così come costituirsi. Il castigo è dantesco: portarsi dietro un’enorme palla di ferro, una coscienza pesantissima. Non si può operare il bene con il male, il fine, quando si ha a che fare con gli esseri umani, non giustifica i mezzi. Non s’illumina l’umanità col sangue versato. E  Lazzaro – Raskolnikov può rinascere solo se ammette la propria colpa e la espia.

Molti i temi messi in scena, oltre a quello della colpa e della responsabilità: la carità, la vita familiare, l’ateismo e l’attività rivoluzionaria, l’affermazione individuale, il “superuomo”.

La scenografia è essenziale: c’è un tavolo da taverna e qualche sedia. Tutto è “popolato” dai soli personaggi, attraverso i quali riusciamo a vedere uno scorcio di strada, qualche interno spettrale, la campagna che appaiono come frammentarie visioni, come sogni. In alcune scene gli attori, con costumi neri e maschere fluorescenti, danzano sul palco tormentando il sonno del protagonista e mostrandoci il groviglio dei suoi pensieri e sensi di colpa.

L’obiettivo principale è proprio quello di rappresentare il viaggio di espiazione, dal delitto al castigo, di Raskolnikov e la sfida dialettica tra lui e il giudice.

Daniele Di Martino ha interpretato magistralmente il ruolo di Raskolnikov, la complessità dei suoi conflitti e delle sue farneticazioni. Efficace e versatile anche la recitazione di Antonello Gualano, cinico e dominatore della scena.

Molto intense anche le interpretazioni delle protagoniste femminili e dell’entourage di Porfirij, che hanno mantenuto viva l’attenzione e sono state essenziali nell’evoluzione del dramma.

I costumi ricreano perfettamente l’atmosfera dell’epoca. Le musiche sono leggere, a tratti melodiche, a tratti incalzanti. Le luci evidenziano gli elementi scenici, illuminandoli al bisogno. Il clima di orrore, gelo, di oscurità è ben reso. E l’uomo non si redime, preferisce rimanere nel sottosuolo.

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