Home Teatro C’è del pianto in queste lacrime tra follia e realtà

C’è del pianto in queste lacrime tra follia e realtà

[rating=5] Teatro San Ferdinando, Napoli, interno notte. Il palco è al buio, il sipario aperto ma un velario nero (più tardi si svelerà) nasconde coprendo ogni cosa di piceo fondo caravaggesco; solo, in primo piano, la luce irrora, circondato da microfoni, un letto senza rete e materasso, quasi branda ospedaliera o manicomiale nel suo grigiore nudo ed essenziale, incarnazione dell’idea stessa di letto. Un Edward Mani di Forbice, un personaggio cioè del tutto uguale alla creatura semiartificiale di Tim Burton, si siede in silenzio sulla sbarra del letto. Le luci in teatro si abbassano lentamente.

Se mai, per avventura o per scommessa, l’invocazione al sole che Linda Dalisi e Antonio Latella pongono prima che tutto abbia inizio, “Jesce Sole”, come nelle antiche ballate d’una città che è molte città, che da sempre coesiste coi suoi opposti e i suoi inversi – e, pure, con scontati passati e improbabili futuri – se mai, dicevo, quel canto che poi non è canto ma ritmata tiritera cadenza inflessione dell’anima che l’Edward Mani di Forbice intona – sequestrato entro il letto che, ora sì, non è più indifferenziata idea di letto ma invece pulpito e prigione della follia insieme, regista delle sue stesse latenti memorie e non pacificati ritorni, qui nel primo piano tra il palco e la platea, la scena e la realtà, la vita e la sua rappresentazione – e che poi si propaga ai fantasmi che avverti lassù dove tutto tra poco avverrà, nella penombra che l’alzarsi del velario rivela ansiosa, come preghiera e insieme maledizione; se, ancora, quel battere ritmico dei pugni sul muro, che accompagna il cupo invocare, tamburi che di lontano annunciano il terrore e l’inferno che tra poco invaderà la città, o, ancora, sordo rimbombo dei cuori in preda ad angosce e paura; se quel cupo e nero grido d’urgenza e lamento che si trasforma – ma senza la musica, la musica no – nell’icona stessa del canto in questa città, “che bella cosa è na jurnata ‘e sole”, connotando quindi un luogo ma al tempo stesso negandone la particolarità e affermandone, invece, e per contrasto, l’universalità; se questa richiesta di sole, accorata e affranta pur senza cedere di un millimetro alle aduse romanticherie che di solito l’accompagnano, melassa inzaccherata di luoghi comuni della triste napoletanità, se questa supplica fosse stata accolta, la luce, la luce avrebbe fugato i neri spettri delle dimenticate memorie, asciugato le piaghe purulente che imputridiscono, nell’umidore chiuso e affollato di vermi e parassiti? Probabilmente sì: ma la luce non c’è, non risponde il sole alle suppliche, ancora alta è la notte, e così può cominciare, come un asfissiato rito, una macchia oscena, un vecchio rimorso – diceva quell’altro poeta – C’è del pianto in queste lacrime.

C'è del pianto in queste lacrime

“Ce steve ‘na vota ‘na vecchia signora…”, tra favola ed epica il sapore dell’inizio d’una storia che non c’è: piuttosto sprazzi e lacerti di ricordi mutati per mutati tempi e spazi che son passati, vaneggiamenti dell’uomo in nero – il già citato Edward Mani di Forbice – icona burtoniana dell’oggi d’affannata diversità, chiuso – abbiam detto come, anche visivamente e fisicamente – nella sua orgogliosa e dolorosa solitudine. È il suo sguardo che ci racconta le cose, – traendole a tratti dal buco nero della memoria (“m’aggia ricurdà”) come quel padrone di casa che dallo scrigno suo estrae cose nuove e cose vecchie, confondendole e trasmutandole alquanto – oppure a bella posta le crea per il suo e nostro trastullo, arma di distrazione di massa, grumo appassito di sangue nero, incubo di rossa follia? Impossibile a dirlo, ciò che vediamo è che l’Edward dirige e governa la scena, a volte personaggio (Totò, Giannino, Assuntulella…), a volte regista (“Applausi…” ordina ogni tanto), a volte spettatore, occupando esattamente, anche fisicamente, la quarta parete, il confine tra l’al di qua e l’al di là, la soglia che invisibile divide l’essere dal non essere.

All’occhio suo s’anima la scena e i personaggi che la compongono, che han per teatrino non già gli spazi azzurri (o’ sole o’ cielo o’ mare) della sforzata tradizione ma un cunicolo buio sezionato longitudinalmente per metà, artificio che si mette a volte in atto a favore della telecamera dell’entomologo per lo studio scientifico degli insetti. Ed essi – i ricordi di un tempo (forse) diverso – si muovono al suo interno e avanzano lentamente, o con circospezione, appoggiandosi alle pareti illuminate di chiarore ora lieve e caldo ora intenso e raggelante, sempre palesemente artificiale – al buio evidentemente son soliti vivere e nel buio ritornano dopo aver fatto ciò che era necessario fare. Un gruppo di famiglia, scopertamente, la madre, il ricordo del padre, la nonna, lo zio, vicini e parenti, donne e uomini che vivono artificiosamente una parvenza, meglio, un’imitazione della vita. Passa, naturalmente, la rappresentazione di tanto dolore, attraverso l’arte degli attori: vestono tutti di nero, ma per farli distinguere nella finzione teatrale in cui vivono hanno acquistato identità d’insetti ed altri striscianti orrori: Scarafaggio, Vespa, Ragno, Ratto, Mosche ed altri innominati abitatori degli abissi dell’anima, da Valentina Acca, una comare Gelsomina pungente e rapida come la Vespa che la rappresenta, a Leandro Amato, fantasma di padre buono e retto, a Michele Andrei, ributtante zio viscido che affoga nello schifo i suoi desideri, ad Alessandra Borgia, la madre Assunta, Farfalla che troppo svolazza intorno, a Michelangelo Dalisi, che disegna una perfetta nonna Amalia, vero centro della famiglia malata, alla Maria di Francesca De Nicolais, bizzoca che sublima il desiderio sessuale nell’inesausta sua rupofobia, a Lino Musella, zio Alfonso pecora nera della famiglia e guappo di cartone per necessità, al duetto delle deliziose Mosche francesi, Candida Nieri e Paola Senatore, al guappo “nero” don Salvatore, Francesco Villano, Mantide Religiosa profittatore e violento, a Emilio Vacca, Edward Mani di Forbice, Giannino e Assuntulella, motore della storia, guida del nostro sguardo nel maelstrom che sempre più ci attira sul fondo della pazzia.

Allargano le braccia e le gambe, i personaggi neri, le proprie e quelle dell’insetto ch’è tutt’uno con loro, così da formare spesso una forma, una sagoma, un profilo di stella nera, ali d’ombra malata rafforzata e amplificata e deformata dalla luce: sagome dal nero al grigio si formano simmetriche allora attorno agli spettri, come Rorschach che interroghino muti proprio te che sei seduto in platea, apparenze della luce che testino le proiezioni dell’animo tuo nella voluta e intenzionale e malevola ambiguità loro, cartina al tornasole delle tue passioni e dei tuoi desideri. È solo un pretesto la vecchia sceneggiata, una provocazione, una trovata dell’arte per far uscire allo scoperto il pus di vecchie dimenticate ma pur sempre attive suppurazioni rancide che s’annidano giù, in basso, nelle tradizioni svuotate d’ogni originale contenuto: gusci vuoti andati a male, maleodoranti, vermicolanti vite aliene colme di nulla, prive di vita cosciente; si scopre, il gioco, non tanto dal kafkiano riferimento alla più famosa delle moderne metamorfosi letterarie, quanto dall’uso del linguaggio, idioma corrotto che ha perso del tutto la sua musicalità per imbarbarirsi con l’uso di termini filtrati dalla contemporaneità, non abbastanza sedimentati, corpi estranei che si gonfiano di volgarità (se c’è un richiamo è ad Annibale Ruccello), e che venendo meno alla principale loro funzione, che è quella di comunicare, creano surrogati espressivi costruiti con frasi fatte, proverbi (“la saggezza antica”), canzoni della vecchia Napoli, ecolalia ed ecoprassia che all’infinito costringe a ripetere col linguaggio verbale e non verbale le stesse identiche cellule simboliche. E la famiglia, la città, il mondo diventa allora ossessiva prigione, la coazione a ripetere unica modalità espressiva, viaggiando sicura entro i binari di un simulacro di vita e comunicazione che tanto sarebbe piaciuto a Berne, così classicamente costruito sulla transazione nevrotica, malata, oscena, di “personaggi” che per forza di cose devono, per illudersi di vivere, scegliersi di volta in volta un ruolo, che si chiami, la nuova personificazione, “Isso”, “Essa” e “O’ malamente” oppure “Vittima”, Persecutore”, Salvatore”, non ha alcuna importanza, necessario solo che ciascuno non giochi mai nello stesso ruolo, che chi si trova ad essere oggi vittima domani possa essere persecutore e dopodomani salvatore, pedine di un gioco malato che esiste perché possa evitare almeno il dolore di vivere.

Così la vecchia sceneggiata sotto la lente del lucido analista vien sezionata, aperta, rivoltata, fino a perdere ogni parvenza della primitiva struttura, se ne fanno uscir fuori i visceri putrefatti e le arterie arrossate ancora di sangue, finché non sia chiaro improvvisamente a tutti come, semplicemente cambiando il punto di vista (guardandola, cioè, con lo sguardo dei figli – “e figl’ so’ piezz ‘e stommaco” – Giannino e Assuntulella), la vicenda del povero emigrante tradito dalla moglie acquisti altra caratura e prospettiva, somigliando sempre più alla storia di re spodestati e uccisi e pallidi principi di nevose contrade nordiche: il marcio che affligge certi paesi, evidentemente, è universale, come il pianto, del resto, e universale l’arte di rappresentarli, così da restituirti – miracolo delle povere cose – tutta intera ed integra l’emozione e l’altissima poesia: sì, in quel marcio e in quel pianto ci son pure le lacrime tue, e mai avresti pensato, prima, tanto vera e reale l’evidente tautologia del titolo; e ora sì, ora che abbiamo compreso, ora può chiudersi, sciogliendo il canto trattenuto all’inizio, “che bella cosa è na jurnata ‘e sole”, non a voce spiegata come poco prima altre canzoni della vecchia Napoli, ma lieve, come arginare un dolore, come chiudere il cerchio delle memorie, come ascoltare un labbro chiuso – diceva quell’altro poeta – C’è del pianto in queste lacrime.

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