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Il Verdi corsaro e la Santa guerriera: Giovanna d’Arco, la prima del Teatro alla Scala

[rating=3] La portata succulenta della prima della Scala del 2015 è passata alla storia più per il “contorno”. Un mix di psicosi terrorismo, sfilata di forze dell’ordine e contestatori, fumogeni e slogan. Senza dimenticare i Very Important People. Ma oltrepassato l’atrio del prestigioso stabile milanese, a dominare la scena è finalmente l’arte. La Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi torna alla Scala dopo 150 anni e, nonostante l’assenza del magistrale baritono Carlos Alvarez, si dimostra un’opera senza tempo capace, come in quel lontano 15 febbraio del 1845, di “sbalordire tutti i Milanesi” (come scrisse nel 1844 Emanuele Muzio, allievo e segretario di Verdi). In realtà l’opera registrò un discreto insuccesso e “guastò” i rapporti tra il grande compositore e la città meneghina. Non solo: la Giovanna d’Arco venne anche inserita da Massimo Mila tra le opere “brutte” di Giuseppe Verdi.

Ma il ritorno c’è stato. La regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier ha il merito di esaltare l’aspetto sovrannaturale del dramma presente nel libretto di Temistocle Solera. La Giovanna ammirata alla Scala è una giovane donna di metà Ottocento (la vicenda originale si svolge tra il 1428 e il 1431) che vive nella sua stanza da letto il conflitto tra la morale borghese e religiosa impostale dal padre e il desiderio di vivere appieno la sua sessualità. E che non si parli di “tradimento”, ma semmai di “audace trasposizione”, perché lo spirito dell’opera giovanile di un Verdi “corsaro” è più che mai intatta.

Giovanna d'Arco

Ancor oggi il coro demoniaco del Prologo (“un valzer graziosissimo” e di carattere popolare, lo definisce Muzio) viene spesso considerato, nonostante il suo evidente ascendente meyerbeeriano (Julian Budden ha scritto giustamente che “sulla Giovanna d’Arco aleggia l’ombra di Robert le Diable”), come un esempio di “volgarità” nazional-popolare tipica del giovane Verdi. Una “baldanza” che emerge con forza nella direzione d’orchestra del maestro Riccardo Chailly, capace di restituire tutto il senso di magica inquietudine dell’incontro tra l’ardore giacobino Giuseppe Verdi e il genio libertario di Friedrich Schiller. L’Overture, in particolare, è stata affrontata in maniera frizzante, stringata ma non repentina, con una piacevolissima attenzione ai dettagli dei singoli interpreti.

Anna Netrebko ha confermato, nei panni della protagonista, di essere una fuoriclasse. La sua voce calda e insieme cristallina restituisce perfettamente la dimensione una figura tanto determinata quanto fragile. Uno status sottolineato anche dalla scelta dei registi di concentrare l’azione nella stanza della pulzella d’Orléans, dove la guerriera sogna e si strugge infuocata dalla febbre: ecco che le pareti diventano un cosmorama di scene di battaglia, incubi purpurei e visioni di popoli lontani. Non solo. Largo spazio è dedicato anche alla contesa tra i due cori opposti di angeli e diavoli, che cantano fuori scena dietro una sorta di velo-schermo per poi irrompere da dietro la boiserie per intonare “l’orrida foresta”. E’ il “fantastico” che prorompe dalle teorizzazioni di Abramo Basevi, più smussato e meno grottesco, d’accordo, ma con la vivida forza sconvolgente che contrappone la virtù mariana allo scandalo della sensualità. La scena ci ricorda in ogni momento il dramma della protagonista, stretta dalle mura di una famiglia “perbene” e opprimente.

Francesco Meli nei panni del re Carlo VII, automa tutto d’oro dall’andatura “novecentesca”, quasi pirandelliana, non ha mostrato nessun punto debole nonostante l’armatura tonale richiestagli dalla partitura. Impeccabile dal duetto alla cabaletta (magistrale la fluidità di canto in “Pondo è letal, martiro”). Ma è nella prova attoriale che si è apprezzata l’autentica bravura di Meli: il passo, la presenza, la mimica hanno restituito la dimensione di un Delfino luccicante proveniente da un Medioevo di cartapesta. La sua interpretazione calcolatamente “irregolare” è senza dubbio tra le note più positive della serata.

Il 44enne fiorentino Devid Cecconi, subentrato ad Alvarez, è stato autore di un’ottima prova nel ruolo di Giacomo, in particolare nel duetto con Giovanna, nel pentimento del “malcauto vegliardo” come nello slancio. Nell’economia musicale dell’opera, il baritono rappresenta forse la figura più importante e “mazziniana”. La figura del cosiddetto “basso-cantante” si impose al pubblico di inizio Ottocento proprio grazie alle opere di Giuseppe Verdi (e ancor prima di Gaetano Donizetti), in primis il Nabucco (1842).

Eppure, al contrario dei bravissimi interpreti, c’è qualcosa che “stona”. Sebbene ci voglia un bel po’ di coraggio nel definire la Giovanna d’Arco un lavoro minore del Verdi, è un dato di fatto che l’opera si presti alle più audaci (o, al contrario, le più frigide) interpretazioni in chiave registica. La scenografia fissa (di Christian Fenouillat), le videoproiezioni, l’illuminazione espressionista (che predilige i toni cupi e il chiaroscuro alternandoli a improvvisi lampi di luce bianca e dorata) sono di indubbio effetto. Cosa non torna, allora, nella rivisitazione dell’opera verdiana in chiave moderna? Una sorta di costume, decisamente in voga negli ultimi anni, che porta i traspositori a dipingere un personaggio “malato”, nevrotico, “furioso” nel senso ariostesco del termine. Giovanna è isterica, “pazza”, volubile, contrastata più di quanto il libretto di Solera e la musica di Verdi vogliano lasciar intendere. Ma è figlia del suo tempo (l’Ottocento nella versione Leiser-Caurier, ndr) direte voi. Ma siamo sicuri che l’attualizzazione sapiente passi attraverso la dichiarazione di intenti (“Buonasera spettatori, ecco una Giovanna d’Arco ottocentesca”) e non venga elaborata sulla scena, esaltando i punti più oscuri e “rivoluzionari” dell’opera? Lasciamo il beneficio del dubbio. Ricordando, però, che il Verdi autore di Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Il corsaro e La battaglia di Legnano si dimostra partecipe di quel disegno di emancipazione del “brutto” dalla sua negatività che era in atto nella cultura europea del suo tempo. Quel che si dice oggi “rompere gli schemi”. Ma quello che viene “reso bellamente brutto” in musica (si pensi alla marcetta in 6/8 che accompagna l’entrata di re Duncano nel Macbeth), sembra perdere di efficacia nella confezione registica ammirata alla Scala. Ecco perché lo “sciocco valzerino” (come lo definì Mila) in 3/8, che accompagna il coro demoniaco nel Prologo della Giovanna d’Arco, è “bello” perché “sciocco”. E Giovanna è “bella” perché “pazza”. In barba all’Ottocento.

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