Chissà cosa avrebbero pensato Berthold Brecht e Kurt Weill vedendo l’ormai quasi centenario lavoro loro messo in scena in uno dei maggiori templi della lirica – come ieri sera qui a Bari – quasi fosse una qualunque Traviata o Boheme, loro che il melodramma reputavano troppo sovvertitore delle emozioni e dei sentimenti, del tutto contrario al Verfremdungseffekt da essi predicato che rompeva invece l’illusione scenica andando a impedire l’immedesimazione, nemica d’ogni riflessione critica. Ho idea che alla fine, tuttavia, nonostante qualche iniziale esitazione, avrebbero gradito questa incursione in terra borghese, non foss’altro per godersi il dissonante contrasto tra la cornice neoclassica del Teatro Petruzzelli e un contenuto cosi modernamente sincopato, asimmetrico, contraddittorio.
Il fatto è che Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny – Ascesa e caduta della città di Mahagonny – è una delle opere più radicali del teatro musicale del Secolo breve, nata nel gran laboratorio che fu la Germania di Weimar, nel 1927-1929, nel breve, effimero intervallo tra le due guerre del Novecento, poco prima che le forti tensioni sociali, politiche ed economiche arrivassero al culmine, rompendo inevitabilmente e rovinosamente il precario equilibrio nato dopo la Grande Guerra. Rappresentata per la prima volta a Lipsia nel 1930, costituisce anche il punto cruciale del teatro epico brechtiano e della concezione della musica come strumento politico e critico: l’influenza del marxismo è esplicita nel pensiero di Brecht, che qui attacca direttamente i fondamenti del capitalismo, dell’ipocrisia borghese e dell’idea stessa di “libertà” in una società dei consumi ben prima che Jean Baudrillard ne definisse miti e strutture.
Se Die Dreigroschenoper era stato il primo grande successo della coppia di Autori, limitandosi tuttavia, in quell’occasione, ad una sorta di canovaccio di canzoni inanellate e tenute insieme da un esilissimo fil rouge, questa volta l’ambizione è di gran lunga maggiore: costruire una vera e propria opera lirica pur senza esserlo, volendo anzi colpirne criticamente il modello, in una sorta di sarcastico postmodernismo ante litteram, trionfo della citazione in chiave ironica.
Così le vicende dell’antieroe Jimmy Mahoney si svolgono nella fittizia città di Mahagonny – trappola dove tutto, in apparenza, è permesso, sorta di Paese dei Balocchi per adulti violento e dispotico – che di certo è situata, pur nella sua immaginaria essenza, nella più che reale Alabama, USA – che sarà patria di predicatori neri e aspre lotte per i diritti, spesso sa la storia insegnarci amare ironie – e tuttavia l’Autore soprattutto ne temeva la forte caratterizzazione statunitense, mettendo in guardia chi in futuro avesse provato a metter in scena l’opera, da qualsiasi stereotipo stars and stripes, la vicenda è, certo, yankee fin nelle midolla ma, allo stesso tempo, profondamente universale, svolgendosi in un non luogo e un non tempo che sono sì, l’Alabama degli anni Trenta ma pure la Germania dei Sessanta o Italia della contemporaneità, provare per credere se, parola per parola, assunto per assunto, sfruttamento per sfruttamento, le cose non stiano così, in questo posto dove i quattro obblighi vigenti del mangiare, far l’amore, boxare e bere sono il prolungamento all’infinito delle promesse capitaliste che prevedono l’unico e letteralmente mortale peccato d’essere poveri.

E allora mette mani e piedi in questa città che non c’è e che tuttavia riluce di realtà tangibile e familiare, Henning Brockhaus, dando vita ad una drammaturgia che non poteva che rifarsi alla forma del Lehrstück e del teatro epico, continuamente rompendo l’illusione scenica e cercando di produrre in chi siede in platea un atteggiamento critico e non empatico.
Perché poi – lo pensavo ieri sera – il teatro di Brecht, dopo cent’anni, è ormai – finalmente – entrato nella pratica comune, straniamento, interruzioni narrative, narrazioni collettive fanno parte ormai del bagaglio di qualsiasi regista con un minimo di preparazione tecnica: inevitabile, dunque, l’effetto déjà-vu che un po’ dappertutto semina opacità e tuttavia rimangono ben impresse nella memoria scene che si segnalano per indiscussa potenza e sottile sarcasmo, dal coro degli uomini che emergono dalle rocce con la sola faccia, al banchetto luculliano che finisce per diventare citazione della parabola del ricco Epulone coi tanti Lazzari dal volto sfuggente che raccolgono le briciole, e poi Jimmy prigioniero con la tuta arancione di Guantanamo e l’Alabama Song che è fuga e desiderio, marcia ubriaca dalla melodia semplicissima e inquietante che improvvisamente ci mostra la Luna come una ben severa maestra, le palme che compaiono a un certo punto come in un presepe alieno di plastica levigata, effetti video – di Mario Spinaci – che irrealisticamente descrivono espressioniste esperienze, esplicite citazioni che si susseguono senza soluzione di continuità dell’arte weimeriana di Otto Dix e Max Ernst, di Wassilly Kandinsky ed Emil Nolde mentre le coreografie di Valentina Escobar estrapolano in tutto il suo decadente, ironico splendore, il fiorente e pezzente popolo della malcrescitua città, enorme Kabarett in cui Berlino – pardon Mahagonny – prospera e lievita incontrollata.
E così la Città – che derivi il suo nome dalla tela di ragno ovvero dal cachettico colore delle Sturmabteilung ovvero da una certa angolazione dello swing – da Margherita Palli è (de)costruita e (ri)composta anche con l’aiuto degli sgargianti ma essenziali costumi di Giancarlo Colis – oh, come sono belli ed esagerati i copricapi tra il colbacco e la papacha che i quattro tagliaboschi indossano all’inizio – con l’aria di un cantiere che si fa e si disfa sotto gli occhi nostri, lo spazio scenico sepimentato, suddiviso, compartimentato da un ponte praticabile di legno che l’attraversa infatti per intero in orizzontale, reggendosi su cinque pilastri della stessa materia, scaricando e distribuendo il peso grazie a travi oblique e sghembe che ne definiscono la verticalità.
Ma pure nella terza dimensione si amplia lo spazio, conquistando parte del proscenio con una passerella in tutto simile a quelle che, nel vetusto varietà, servivano a mostrar le gambe delle subrettine al popolo animoso e voglioso, qui rifatta per sottolineare – ove mai ce ne fosse bisogno – la definitiva distruzione della quarta parete, che si traduce in un insistito e non spiacevole soggiornar dei cantanti nel proscenio, oppure nell’entrare e uscire dalla scena attraverso il varco del pubblico. Tutto cose viste e risapute, per carità, che tuttavia obiettivamente non potevano mancare trattandosi dell’opera di un dei maestri del Novecento che queste cose, insieme ad altre, le ha inventate e praticate.
Meglio si definisce, ancora, l’idea scenica, nel persistente e sapiente gioco dei velari che alternativamente si aprono e si chiudono, costituendo un ulteriore elemento di descrizione della scena, mai di commento, più spesso fornendo invece elementi di approfondimento: di natura cangiante a seconda dell’incidenza delle luci, del tutto opaco e smorto oppure ispirato a Paul Klee nel colorato patchwork di esausti pigmenti, rimane alla fine, con la morte di Jimmy, congelato nel mezzo del distacco, come una sorta di straccio crocefisso per l’eternità; altre volte, come durante la prigionia del protagonista, descrive la nullificazione della Città e del protagonista perdendosi in un mare infinito di noice, rumore di fondo che copre l’assoluto nulla, disturbo illogico e privo di senso che vieta ogni catarsi; oppure, ancora, si fa stilizzata cartina geografica su cui un’ansiosa famigliola segue, come su un maxischermo tv, l’evolvere del meteo che segue, con una freccia, il cammino distruttivo dell’uragano.
Luka Hauser dirige una trasfigurata Orchestra del Teatro Petruzzelli con grande sicurezza e padronanza, agilmente adattandosi alla bisogna, alla prese con una partitura volutamente, insistentemente, (in)coerentemente elettrica, ibrida, caotica, autentico pastiche musicale che spazia dal jazz al foxtrot al ragtime, districandosi attraverso cori bachiani e fughe, in un continuum in cui le marce militari si alternano consapevolmente alle canzoni popolari e al cabaret: serve, la musica, ad alienare lo spettatore, non a coinvolgerlo emotivamente, un tappeto musicale in cui c’è quasi un ritorno – per nulla nostalgico – alle forme chiuse, ben lontano dalla continuità drammatica wagneriana, ogni numero musicale è autonomo e auto-commentante. Di Wagner, tuttavia, si conserva l’uso dei leitmotiv – della città, del denaro, del piacere – in funzione narrativa e ironica: per lo più l’orchestra viene utilizzata come distaccato commento, spesso tonale ma con dissonanze ironiche, a tratti ensamble da varietà, in altri momenti meccanica e brutale in cui il ritmo sincopato è usato per creare straniamento, l’elettronica non è presente, ma l’uso del banjo, del sax e delle percussioni richiama il sound urbano e corrotto della modernità. Perché in Mahagonny ogni personaggio è costruito anche attraverso la musica, che agisce come secondo livello drammaturgico: mostra ciò che il personaggio è davvero, più di quanto dica, e qui molto ci sarebbe da dire, ancora, su Wagner e la sua concezione di Gesamtkunstwerk, Weill, in fondo solo aggiornando il Vecchio Illusionista, decostruisce il canto operistico e la canzone popolare per farne strumenti critici di un teatro dove la musica non consola, ma inquieta, smaschera, educa.
Così Daniel Brenna, probabilmente il migliore in scena ieri sera, è un Jimmy Mahoney che spesso dà voce alla disillusione dell’uomo comune che cerca senso e umanità in un mondo dominato dal denaro, interpreta le sue arie alternando momenti di lirismo sincero a frasi fredde e distaccate, senza veri slanci eroici perché il suo, con amaro disincanto, è un personaggio fondamentalmente passivo, figura tragica rovesciata cui è negata ogni musica “grande” o epica, riflettendo la banalità del male e della rassegnazione che oscilla dalla realtà alienata e malinconica camuffata d’apparenze affettuose di Wenn man einen guten Freund hat al monologo Ich habe gelernt prima della condanna a morte, in cui la musica diventa secca, disillusa, senza enfasi, nel vuoto assoluto della mancanza di spirito tragico: assuefazione alla morte dentro un sistema ingiusto.
Legata al destino di Jimmy è Jenny Smith (Chunxi Hu con grande sicurezza), prostituta con aspirazioni romantiche, il cui destino è legato a quello di Jimmy: figura di potenziale compassione repressa in cui la tessitura vocale di soprano drammatico d’agilità incarna il desiderio consumistico e la bellezza venduta, è seducente ma anche artefatta, spesso caricaturale, la sua musica alterna il jazz, il Kabarett berlinese e la parodia della chanson, che finiscono per sottolinearne la falsità, volutamente figura da rivista/cabaret, resa oggetto musicale e visivo, destrutturando l’idea lirica della donna seduttrice e riducendola a prodotto. A lei è affidata Alabama Song (Show me the way to the next whisky bar), aria scritta in inglese, desiderio nichilistico di evasione, divenuta celebre anche grazie alla cover dei Doors e di David Bowie.
Leocadia Begbick, la fondatrice cinica, interpretata con colore scuro e autoritario da Nadine Weissmann non canta per emozionare, canta per gestire, la sua musica è secca, spesso priva di melodia, costruita su ostinati e ripetitivi frammenti: è la voce dell’ideologia, del potere pragmatico, dell’amministrazione dei vizi. Il suo canto è spesso parlato, con accenti ritmici marcati, che ricordano la sprechstimme, la recitazione cantata: così Denn wie man sich bettet, so liegt man diventa un motto morale travestito da slogan pubblicitario, spesso è lei a pronunciare le frasi più dure con tono da sentenza sociale. Fatty e Trinity Moses (rispettivamente Giulio Pelligra e Zoltan Nagy) completano la triade dei fondatori, maschere dal canto grottesco, intessuto su ridicoli intervalli o ritmi da vaudeville: personaggi da commedia dell’arte, rappresentano lo squallore della quotidiana corruzione, quel che anni dopo si sarebbe chiamata banalità del male, incarnazione del cinismo e della manipolazione ideologica.
E poi c’è il Coro, diretto da Marco Medved, che assurge qui, come spesso succede, a vero personaggio, commentando l’azione come il coro greco, ma in chiave marxista e dunque vero protagonista collettivo dell’opera, dalle forme solenni in stile bachiano (ma parodiche), a quelle tragiche (come nel finale), ma spesso rese volutamente piatte o grottesche: Weill gioca con le forme corali “alte” (come le cantate religiose) e le svuota di sacralità, cantando, il popolo, l’ordine capitalista come fosse un destino, ma è canto di rassegnazione, non di rivoluzione, e forse è questo il segno più autentico della persistente attualità di quest’opera.
SOTTOTITOLO
Per la prima volta a Bari il capolavoro di Brecht e Weill