[rating=3] Trasmigrato in un 1912 splendente delle dorature e delle luci e degli smalti d’un raffinato quanto contenuto jugentstil, che affiora soprattutto nella cura ricostruttiva dell’epoca, negli abiti, nei colori, nei vetri piombati, nell’arredamento del palazzo di don Ramiro, Principe di Salerno (sic!), quest’ormai famoso allestimento della Cenerentola di Rossini che torna qui al San Carlo dopo aver girato il mondo in lungo e in largo (ed solo l’ultimo figliol prodigo a rientrare alla Casa madre, quest’anno, carico di gloria e di successi…), sembra quasi sottolineare ancor più la doppia sua natura che ne costituisce motivo vitale e fondante.
In bilico com’è tra farsa e tragedia (dramma giocoso è l’ossimoro con cui lo definiscono gli autori) smodatamente sagacemente intenzionalmente gioca la carta dell’ambiguità e della doppiezza pure nell’evoluzione della trama e nello stesso presentarsi identitario dei personaggi: chi è veramente Cenerentola-Angelina? La regia di Oscar Cecchi, che riprende quella di Paul Curran, cerca di spiegarcelo in un prologo mimato durante l’ouverture, mostrandoci la morte e il funerale della madre d’Angelina, ma in effetti chi sia veramente l’ha scordato lei stessa, quando balbetta confusa al Principe che chiede informazioni; d’altra parte, la cenciosa serva sappiamo tutti che si trasformerà nella splendida Principessa e questa doppiezza è evidente anche musicalmente, nella non scontata diversità tra la cupa nenia cantilenante della canzone malinconico-popolare d’Una volta c’era un re che la servetta intona al focolare e gli arabeschi vocali irti e dolci al tempo stesso di Sprezzo quei don che versa, frutto d’una consapevolezza improvvisa e vincente: ambiguità e doppiezza che investe anche gli altri personaggi, dall’Alidoro mendicante e filosofo, al Dandini Principe e cameriere, a don Ramiro cameriere e Principe: un gioco delle parti che intuiamo tuttavia lontano dalle sgangherate farse avvinazzate cui probabilmente è avvezzo don Magnifico, barone – per l’appunto – di Montefiascone, ma che possiede al contrario una sottigliezza allusiva non da poco, mista ad alcune raffinate e attualissime satireggianti staffilate sul potere e sull’uso e abuso che se ne fa, che lo rende più affine, in fondo, a Pirandello che a Beaumarchais, più vicino a noi di quanto apparentemente non appaia.
Esteriorità fallaci e ingannevoli, miste a misconosciute latenti verità che vengono esaltate dalla brillante regia, dai costumi di Zaira de Vincentiis, dalle scene di Pasquale Grossi: forme e colori e sembianze e sguardi che ci rimandano ad una belle époque già sul limite estremo della vita sua breve, col cessar dell’illusione della bellezza che il mondo non riuscirà a salvare, ma che invece di lì a poco precipiterà nel baratro d’una guerra che sarà detta grande dai contemporanei; e il sonno della ragione già si rivela nei tanti concertati dell’opera, sempre sul punto di precipitare nel nonsense surreale e vertiginoso, ch’è sì, certo, così caratteristico e precipuo del Pasarese, ma che qui è insistito, martellante, esagerato nel restituirci la totale alienazione delle menti e della ragione. Così, anche le luci (di Claudio Schmid) fanno la lor parte in questo, proprio nelle scene d’insieme, illuminando fiocamente dal basso i personaggi, suggerendo in tal modo l’illusorio miraggio visivo d’anni in cui la scena dei teatri s’illuminava in tal modo, ma restituendoci anche le vive deformità dei personaggi, maschere d’Ensor o mutanti volti di Balla o di Boccioni, espressioni forti e al tempo stesso evanescenti d’un mondo vicino alla sua fine, dove i ricchi privano i poveri perfin della loro identità, le nazioni più forti le più deboli dei diritti loro.
Se la regia tende a rappresentare un universo in apparenza brillante e spensierato ma minato invece alle basi dalle insopprimibili tensioni che ne decreteranno la fine, la direzione di Gabriele Ferro (come già alla prima di quest’allestimento, qui a Napoli, al Politeama, nel 2003) m’è apparsa quantomeno problematica nella sua scelta di rallentare i tempi, tutti i tempi, il che, se da un lato ha reso molto più malinconiche e meditate certe espressioni – e questo, senza entrare nel merito della decisione, è senz’altro legittimo – dall’altro ha intiepidito anche quelle altre parti dove trovo d’obbligo, a giustificare la giocosità del dramma, accelerare i tempi. L’orchestra, composta dai professionisti che sappiamo, non ha potuto altro, evidentemente, che assecondare – e con che intelligenza e sapienza! – il voler di chi dirige; il coro (rigorosamente sol maschile), diretto da Marco Faelli, ha ben figurato, con espressioni a volte vicine al sussurro, fornendo un’ovattata e suggestiva base al canto dei solisti.
Nel ruolo del titolo l’esordiente (qui a Napoli) Serena Malfi: pur se la voce par leggermente stimbrare sugli acuti, è ferma, squillante, perfetta sui toni gravi, dal colore dolente e passionale; sul piano scenico è convincente, nel doppio ruolo dimesso e cencioso l’uno, sicuro e regale l’altro, credibile sempre, mai eccessiva. Maxim Mironov ha cantato con grazia e sicurezza insieme: dalla sua una voce fluente e bella e una notevole (e visibile) esperienza teatrale grazie alle quali supera brillantemente il limite del volume non potente. Il Dandini di Simone Alberghini è elegante, inappuntabile drammaturgicamente: par che si diverta prima lui, e questo è sicuro segno d’invidiabile tecnica che tutto fa sembrar facile e naturale. Alidoro è Luca Tittolo: ha voce solida, ampia, scura, che aggiunge nobiltà e decoro al personaggio, in una con la perfetta compostezza scenica. Le due sorelle, la Clorinda di Caterina di Tonno e la Tisbe di Candida Guida, eccellono in presenza scenica, donandoci un “duo” brillante e teatralmente perfetto. Perfezione scenica che è anche, e in misura “magnifica” nel don Magnifico – nomen omen – di Carlo Lepore, di cui avevamo ammirato la splendida voce e le notevoli doti attoriali nel sempre rossiniano dottor Bartolo l’anno scorso al San Carlo e, prima ancora, nello splendido, alessandrino e verniano Falstaff ronconiano al Petruzzelli che vedremo qui a Napoli nell’anno che verrà. Alla fine, applausi per tutti in un tripudio di riso e coriandoli.