[rating=5] Uno spettacolo di elevatissima qualità quello in scena in questi giorni al Teatro Arcimboldi di Milano. È il “Parsons Dance Tour”, danza contemporanea a suon di musica elettronica con ballerini giovanissimi e straordinariamente atletici.
Le coreografie di Parsons, fondatore dell’omonima Compagnia nel 1985, famosa in tutto il mondo, giocano molto sulla seduzione del pubblico attraverso effetti scenografici che sfruttano movimento, luci e musica con invidiabile maestria. I ballerini della compagnia dell’artista americano possiedono una tecnica fenomenale e si devono cimentare in esibizioni che richiedono la massima concentrazione e piena consapevolezza tecnica.
I brani che Parsons ha deciso di mettere in scena per questo suo spettacolo italiano sono una miscela di classici del suo repertorio e alcune première italiane, un evento in gran stile per gli appassionati del genere.
Lo spettacolo inizia con un trittico del 2008, “Train”, coreografato da un ex allievo di Parsons, Robert Battle e finora mai eseguito in Italia. Le musiche sono dei Tambours du Bronx, un tripudio di percussioni e suoni aggressivi, per una danza dai movimenti perennemente in bilico. Il dialogo tra sei ballerini e, di volta in volta, un “solista”, si sviluppa attorno ad un’altalena tra le posizioni della danza classica, romantica, e movimenti ancestrali di ribellione. Sembra quasi che i danzatori debbano rifuggire l’armonia dei movimenti di accademia, senza però un approdo certo cui arrivare. I costumi sono pudici: calzamaglia e maglietta. Il ritmo di musica e danza è quasi alienante, e come inizio non c’è male: i ballerini sono perfettamente sincronizzati e le figure geometriche (linee, cerchi) che s’inseguono, riescono alla perfezione. La danza si chiude al buio.
A stemperare la sala ci pensa il secondo brano, “Hymn”, del 2007, altra première italiana. L’immaginario evocato è più leggero, i movimenti si fanno più sinuosi, la musica è decisamente pop. La coreografia di Trey McIntyre fa dialogare una coppia di danzatori in pantaloni larghi, quasi svincolati dal fraseggio musicale: una danza formale, eppure colma di citazioni, si potrebbe dire riflessiva. Ai ballerini è richiesta una padronanza del ritmo e del tempo notevole, e numerosi sono i giochi, quasi ironici, di passi in canone, come a sfalsare volutamente la sincronia che solo qualche minuto prima era perfettamente simmetrica. Anche in questo caso la fine delle danze la segna il buio improvviso, a modo di sipario.
Chiude la prima metà dello spettacolo l’ultima recentissima novità dello stesso Parsons, “Whirlaway”, del 2014. Le musiche di Allen Toussaint spaziano dal Rock al Blues, passando per tutta la gamma del Jazz, creando un’atmosfera anni ’50, cui ci rimandano anche i costumi. La coreografia è un continuo alternarsi di assoli, passi a due, a quattro, a sei, a otto, con coppie che si rimescolano continuamente, come se si divertissero spensieratamente in un sabato sera come gli altri. Una danza giocosa, dalle suggestioni ben più ottimiste di quelle precedenti, di gioventù e di corteggiamento, anche se un velo di malinconia non cessa di persistere sulle note dei toni minori. Il palco è sempre in luce, illuminato con colori vivaci che, insieme ai costumi, sembrano dipingere una tavolozza di tinte pastello che si miscelano e rincorrono a ritmo R&B. Il finale, illuminato, è un fermo-immagine da musical americano, una cartolina d’altri tempi.
Il gran finale è riservato ai due più celebri classici di David Parsons: “Caught” e “Nascimento”. Per il balletto stroboscopico del 1982, quello che consacrò Parsons nel novero dei maggiori coreografi del nostro tempo, l’artista americano ha scelto come solista l’italiana Elena D’Amario, famosa per il suo trascorso televisivo nel programma “Amici di Maria de Filippi”. Per immaginarsi questa coreografia, ben eseguita, bisogna pensare ad una serie di fotografie, ad esempio, di un uccello in volo. Oppure ad una figura dell’”uomo vitruviano” replicata in serie sempre uguale a se stessa.
La D’Amario ha dimostrato notevoli capacità, meritandosi appieno il ruolo di Prima Ballerina e interpretando ottimamente la coreografia tecnicamente difficilissima. Il brano inizia al buio, la musica è “Let The Power Fall” di Robert Fripp, un rock psichedelico e sperimentale, sintetico. La ballerina, in top e culottes, segue i riflettori fissi, che si accendono e spengono sul palco, con movimenti aggraziati e al tempo stesso animaleschi, compare e scompare attraverso i fasci di luce, elementi strutturali della coreografia.
La scena si complica quando ai volteggi e alle figure di danza si sovrappongono le luci stroboscopiche. Le evoluzioni e i salti, catturati come diapositive in una perfetta sincronia di luce e movimento, danno l’impressione del corpo perennemente fermo, in aria o a terra, in posizioni però distanti nello spazio e vicine nel tempo, con una soluzione di continuità tranciante, quale è il buio. Ad essere catturato, “Caught” appunto, è il movimento in se stesso, come espressione poetica delle aspirazioni dell’uomo, che sia il volo o che sia l’eternità di una posa perfetta.
Il tripudio del pubblico è assicurato, sia per la meritevole esibizione di Elena D’Amario, che torna in Italia da professionista internazionale, sia per la coreografia così straordinariamente universale di David Parsons, presente in Teatro.
La conclusione spetta ad un altro capolavoro, “Nascimento”, del 1990 su musiche di Milton Nascimento, amico dello stesso Parsons, composte appositamente per la Compagnia Parsons Dance. Il ritmo è vivace, da samba brasiliana, e i ballerini, dapprima in coppia e poi via via sempre di più fino a colmare il palco, si muovono con allegrezza e gioiosità. La composizione è spesso priva di strumentazione e fondata sulle sonorità della voce a cappella, anche in falsetto, come reminiscenze di una musicalità antica e tribale.
Il dialogo tra coppie e coreografie di gruppo gioca su simmetrie e opposizioni, i movimenti evocano echi della danza classica, della capoeira, della danza contemporanea e moderna, sempre in relazione col ritmo della musica. Il risultato non è da saggio di ballo di sala, ma piuttosto da musical spettacolare, in cui l’incastro dei movimenti individuali crea delle vere e proprie cartoline di gruppo.
I colori luminosi dei costumi contemporanei e l’assenza di buio, rischiarano definitivamente l’atmosfera, con entusiasmo e vitalità adolescenziali. I ballerini vanno da una parte all’altra del palco, si rincorrono e alternano in coppie, inscenano coreografie da cheerleader, quando il ritmo rallenta e sono fermi, muovono con ironia braccia e mani, a provocare l’irrimediabile rottura della stasi e il ritorno del clima festoso. L’esibizione della compagnia al completo conferma l’altissima qualità dei ballerini, l’elevato livello di preparazione, di coordinamento, di sinergia e sincronia, di padronanza del ritmo, della musicalità, dell’armonia dei movimenti.
Gli applausi del pubblico hanno richiamato i ballerini e Parsons dal sipario, per il meritatissimo tributo, e non è mancata occasione per esibire un breve bis. Durante lo spettacolo sono state inevitabili le minime sbavature che un’esibizione di questo genere non può non prevedere, e, ciononostante, il risultato complessivo resta memorabile.
Peccato soltanto per gli effetti di luce, che nella sala del Teatro Arcimboldi (dall’ottima visibilità ed eccellente acustica) vengono un poco sminuiti dalla mancanza di vero e proprio buio, dovuta alla massiccia presenza d’insegne luminose di sicurezza, non proprio soffuse. Ad esibirsi sul palco i giovani talenti della compagnia Parsons Dance, Sarah Braverman, Christina Ilisije, Ian Spring, Elena D’amario, Jason Macdonald, Omar Román De Jesús, Geena Pacareu, Eoghan Dillon.