Home Teatro Quattro scherzose istantanee di Cechov al Teatro Dehon di Bologna

Quattro scherzose istantanee di Cechov al Teatro Dehon di Bologna

[rating=2] Due panchine, un uomo e una donna seduti l’uno di fronte all’altra. L’”intimità del vagone ferroviario” fa partire il dialogo, che verte sulla giovinezza di lei confronto a suo marito, vecchio ma molto ricco. Lei si è dovuta “sacrificare”, lo ha sposato per poter curare la mamma malata e consentire al promettente fratello di finire gli studi. Poi la mamma è morta, il fratello pure, e quando muore anche il vecchio marito, lasciandole tutto in eredità, lei è colta dall’ennesima disgrazia: trovare un altro marito vecchio ma ricco!

Questo è il primo atto unico, o “scherzo” come amava definirli Cechov, intitolato “Una natura enigmatica” dello spettacolo “Con Anton Cechov… Tragicomico varietà” al Teatro Dehon di Bologna. Anche gli altri tre atti unici saranno perle di riflessione e di ironia, corti e divertenti, che mostrano l’individuo avvolto nel suo ruolo sociale, come bollato da un’etichetta che avvisa sul contenuto e ci comunica cosa ci si può aspettare o meno da lui. Anche perché essendo questi atti così brevi, rappresentano delle fotografie sociali, e non viene concesso il tempo materiale ai personaggi per poter evolvere in qualcos’altro, semmai ne avessero la capacità. Anzi, nell’epilogo di ogni scherzo li si colpisce al cuore proprio della loro caratteristica indelebile.

Ne “Un nome equino”, un uomo beota ha un insopportabile mal di denti, e il suo amministratore lo rassicura che una persona al villaggio potrà curarlo. Purtroppo non si ricorda il nome, che è simile a… un cavallo? un ovino? Inizia allora un’esilarante cernita di tutti i possibili nomi e storpiature di nomi in russo del famigerato guaritore finché la moglie risolverà la questione in modo rocambolesco. Anche qui niente è come dovrebbe essere: la moglie è adultera, l’amministratore incompetente e il ricco uomo non si accorge di niente.

Nello scherzo “Tragico controvoglia”, l’attenzione si sposta dalla borghesia ad un miserabile “impiegatuccio”, che racconta ad un conoscente come è costretto, dato che lavora in città, ad eseguire una serie di commissioni affibbiategli dalla moglie e dalla sua famiglia in villeggiatura. Appena esce dal lavoro monotono che odia, deve correre per le vie della città a comprare tutto ciò che gli viene ordinato (dal triciclo ai fusti di birra!), per poi fare uno scomodissimo viaggio in treno, tornare a casa, dove non riuscirà a riposare. Non farà altro che lamentarsi, urlare e sbraitare, firmando così ancor di più la sua condanna. Il conoscente lo ascolta, quasi si assopisce, poi gli affida una macchina da cucire da portare ad una sua lontana amica in villeggiatura…

Riecco l’alta borghesia nel mirino ironico di Cechov, nello scherzo “La domanda di matrimonio”. Un possidente terriero si reca dal vicino, anche lui ricco, per chiedere la di lui figlia in sposa. Tutti sono d’accordo al matrimonio, quindi sembra facile concludere l’ambasciata, ma la loro ottusità li porterà a litigare per la proprietà di un prato senza valore, l’uno butterà fuor di casa l’altro per poi ricercarlo, interessato all’ormai imminente matrimonio. Ma, non facendo per niente tesoro di quanto appena successo, litigheranno nuovamente, stavolta per le abilità venatorie dei propri cani…

Nella società mostrata da Cechov, i personaggi sono invischiati nella loro esistenza, e per quanto si affannino e cerchino di migliorare la propria vita, non possono far altro che rimanere immutabili, come mosche intrappolate nella tela del ragno. In ogni parola che pronunciano, in ogni occasione che gli si para davanti si vede la loro completa inamovibilità e pesantezza, l’incapacità di reagire e di rinnovarsi, un fardello che viene molto ben sfruttato da Cechov per farci ridere di loro, sebbene con un riso amaro. Il testo proposto, molto fedele all’originale, è stato ben sviluppato nel suo lato ironico, ma talvolta poteva avere una migliore resa comica modulando le battute con ritmi diversi, come ad esempio nella lista di possibili nomi nel secondo scherzo, dove alcune battute sono sembrate troppo accelerate e quindi di minor impatto. La chiave comica appena guadagnata in un atto si perde poi nell’intervallo fra questo e il successivo, dove due ballerini, peraltro molto bravi (anche se la finzione di qualche passaggio, più “naturale” sulla pista da ballo, in teatro stona molto), possiedono tutt’altri ritmi e direzioni, dando l’impressione di due lavori completamente disgiunti. Comunque la mancata integrazione di due linguaggi diversi come teatro e danza è uno dei difetti naturali della vaudeville, cioè l’accostamento appunto di arie cantate o talvolta balletti a brevi atti di prosa.

La risposta del pubblico non è stata calorosa (forse perché spettacolo fuori abbonamento?) e questo ha fatto mancare l’”effetto pubblico”, il fenomeno che ci fa ridere di più dato che altre cento persone intorno a noi lo stanno facendo, portandoci ad una vera e propria “sincronizzazione” emozionale con la platea.

L’errore più facile in cui cadere, trattando questo tipo di testi, è il far diventare impacciato e beota un personaggio facendo il più possibile una parte “neutra” e mimando queste caratteristiche invece di viverle. Gli attori non l’hanno commesso, sono stati bravi a farci vedere le imperfezioni dei personaggi, le hanno fatte proprie e ci hanno creduto fino in fondo, sono veri seppur in ruoli poco verosimili; solo così il pubblico può percepire una sensazione di superiorità che lo porta a cogliere l’ironia e il sarcasmo nascosti nel testo.

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