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Eduardo, Latella e il presepe-teatro di Casa Cupiello

Al San Ferdinando di Napoli fino al 27 novembre, il teatro che fu di Eduardo, il bellissimo e discusso “Natale in casa Cupiello” per la regia di Antonio Latella

C’è una particolarità del teatro di Eduardo che, per evidenti ragioni storiche, lo differenzia da quello degli altri grandi drammaturghi del passato, Pirandello compreso: per decisione dello stesso Eduardo, possediamo tutta la sua produzione registrata dalla RAI, diretta e interpretata dallo stesso autore. Questo ha determinato, nel tempo, non saprei dire con quanta consapevolezza dello stesso Eduardo, la conseguenza che quelle registrazioni si siano ormai affermate, a livello popolare e di vissuto collettivo, come una specie di immutabile codice, di inviolabile, perenne, unica forma possibile di recitare Eduardo, avallato, in qualche modo, dallo stesso autorevole sigillo dell’autore. La registrazione televisiva, ovviamente, se pure ci ha permesso di mantenere nel tempo una indubbia testimonianza storica del valore, anche come interprete, di Eduardo, al tempo stesso ha congelato per anni ogni possibilità di ulteriore ricerca, ogni progresso nell’intelligibilità del testo, ogni concepibile traduzione, nel mantenimento d’una incorrotta tradizione. Questo va detto in premessa, perché altrimenti non si comprenderebbero fino in fondo, di fronte a regie innovative, le atterrite e scandalizzate reazioni di una parte del pubblico e della critica, non avvezza, quella parte, a possibili diverse soluzioni registiche che interrompano finalmente quest’assurdo pietrificarsi dei gesti e perfino delle scene cui assistiamo ormai da decenni. Ancora in premessa, occorre ricordare la complessa genesi di Natale in casa Cupiello, visto che lo stesso Eduardo parlava, a proposito della sua opera di “parto trigemino con una gravidanza di quattro anni”: nacque prima, come si sa, la farsa ad atto unico, quello che attualmente costituisce il secondo atto del giorno della vigilia di Natale, piena di meccanismi teatrali collaudati e che vede dipanarsi l’azione vera e propria.

natale in casa cupiello

A questa primitiva rappresentazione Eduardo sentì il bisogno di premettere un antefatto in cui si gettano le basi della vicenda, si presentano i personaggi principali – tutti, tranne Vittorio – si prepara la vicenda soprattutto per quanto riguarda il meccanismo della lettera scritta da Vittorio a Ninuccia e consegnata da Luca a Nicolino e che farà precipitare gli eventi. Ancora più tardi Eduardo aggiunse il terzo atto, con la lunga veglia corale di Luca Cupiello ormai agonizzante, in cui si tirano in qualche modo le somme dell’intera vicenda.

Antonio Latella, in questa regia di Natale in casa Cupiello arrivata finalmente a Napoli, al teatro che fu di Eduardo, il San Ferdinando, in questo scorcio di novembre, sceglie, dunque, non certo di apportar modifiche di alcun tipo al testo eduardiano, ma di tradurne l’intero apparato scenico dell’opera, fatto di gesti, scene, costumi, luci, in una forma che, tradendo quella scelta all’epoca della genesi dell’opera dall’autore, possa metterne, oggi, meglio in rilievo i motivi conduttori, il significato ultimo, la sostanza che sta sotto alle apparenze (del resto, non fa così ogni regista?): il risultato, nonostante le accuse di freddezza e confusione da parte di molti, anche affermati critici, a me che ho visto lo spettacolo ieri, ha emozionato, in certi momenti fino alle lacrime, e mosso al riso in certi altri, come del resto previsto dall’autore: e intorno a me vedevo – questo è il teatro – altri che ridevano ed erano turbati esattamente come me, e ho visto alla fine sciogliere la tensione accumulata (il teatro era pieno), in un lunghissimo, convinto applauso; freddezza e confusione certo non generano tali emozioni.

Natale in casa Cupiello

Si apre, il primo atto, sull’enorme stella cometa luminosa che cala sul palco: è il primo e più grande simbolo del Natale, il più riconoscibile, icona che ci fa identificare questo o quell’oggetto inequivocabilmente come natalizio. Latella sceglie di mettere il suo spettacolo sotto il segno della cometa sicuramente per questo motivo ma anche perché, come per gli antichi, “la stella cometa non porta nessuna buona notizia” – scrive nelle note il regista – “illumina un presepe dietro il quale abbiamo messo tutto quello che non vogliamo vedere o che non vogliamo accettare, mentre arrivano le feste. La famiglia e le sue relazioni interne. La casa e gli equilibri che governa”. Sotto la grande stella, in fila come in Sei personaggi in cerca d’autore, i vari interpreti, ancora senza volto, al buio: son tutti vestiti di nero, tranne il personaggio di centro, che indossa una giacca bianca, e ciechi, perché ostentatamente portano sugli occhi una mascherina per dormire. Quando il personaggio di centro toglie la maschera e comincia a parlare scopriamo che si tratta di Luca Cupiello (un eccezionale Francesco Manetti), ma anche, probabilmente, dell’autore, perché mentre parla gesticola in modo da far capire che sta scrivendo nell’aria le parole che pronuncia. Dopo di lui ogni attore, nel prender la parola, nell’entrare nel personaggio, si toglierà la maschera; non basta: oltre alle parole previste dal testo recitato vengono “dette” anche le puntualissime didascalie eduardiane, declinate in prima persona quelle riguardanti il singolo personaggio, in terza persona quelle generali, che vengono recitate da tutti gli attori, creando così una specie di coro che accompagna sottolinea commenta l’azione. È come se il regista avesse deciso di rappresentare il primo atto “in forma di concerto”, così come si fa con l’opera lirica: con il teatro musicale e con il melodramma questa regia di Latella presenta, in verità, moltissimi punti di contatto. Crea, infatti, Latella una variegata “Cantata”, dal Natale di Eduardo, attraverso un uso della musica che va dalle primitive forme di cantilena del primo atto, parole che si ripetono da parte del “coro” degli attori intersecando la battuta del singolo, a strutturate forme di canto, singolo o in coro, del secondo atto, fino ad arrivare all’ipermusicalità dell’ultimo, trattato come un vero e proprio melodramma, con recitativi cantati ed arie prese dal Barbiere di Siviglia: musica che, insieme all’assoluta fedeltà al testo d’Eduardo, rispettato fino all’ultimo accento, sottolinea la rigidità della forma chiusa teatrale.

Natale in casa Cupiello

Perché cos’è il presepe di Luca Cupiello, il presepe che l’ossessiona fino alla nevrosi, il presepe che viene distrutto dalla furia inconsulta di Ninuccia (una eccellente Valentina Acca) alla fine del primo atto e ricostruito nel corso del secondo, se non metafora del teatro, natura morta della vita, (ri)creazione d’una esistenza migliore, comunque ad uso e consumo di chi la (ri)crea? Il passaggio dal primo al secondo atto avviene senza soluzione di continuità, sulle parole del copione “Tommasino, assente completamente a tutto ciò che si è svolto in quella camera intorno a lui, ha costruito un pulcinella di carta e lo fa muovere divertendosi un mondo” e sulla pantomima di Tommasino (eccellente Lino Musella), Pulcinella al centro del palcoscenico, mentre la grande cometa s’innalza, rivelando il teatro nudo, le corde dei macchinisti a vista, i riflettori: la macchina teatrale è ormai scoperta, senza sovrastrutture, pronta ad accogliere il presepe (il teatro) che Luca (Eduardo) costruirà. Diventano ora, i personaggi della commedia, null’altro che personaggi (anzi animali) da presepe, portandosi ognuno appresso il suo fantoccio-avatar, chi una pecora, chi un maiale o un montone; la stella è sempre presente, ma invisibile, sosta al di sopra del presepe-teatro, rivelata però dai bagliori della sua luce, mentre dall’alto la tonante voce di Eduardo, quello vero, ripete ossessivamente per tutta la durata dell’atto: “Mo miettete a fa’ ‘o Presebbio n’ata vota…”. È infatti l’autore che costruisce il suo presepe e il suo teatro, sorta di Dio onnipotente che guida le azioni dei suoi personaggi: la sua voce viene comunque percepita dai personaggi, che trasaliscono e si fermano per una attimo: a me ricordava tanto un vecchio film di De Sica e Zavattini, Il giudizio universale, in cui una voce potente annunciava al mondo l’imminente Giudizio di Dio.

Luca Cupiello arriva in scena, in questo atto, all’interno di una teca trasparente trainata dalla moglie Concetta (bravissima Monica Piseddu), in cui tanti hanno visto l’immagine del carro della brechtiana Madre Courage che tira la carretta della vita; pure, m’è sembrata anche palese la metafora di Concetta che tiene il marito sotto una campana di vetro, isolato dalla vita vera da un pesante cristallo sul quale possa continuare a scrivere le sue storie e lei a cancellarle con lo straccio e il sapone, trascinando un carro di Tespi per le strade. Il ritmo di questo secondo atto è serrato, le battute travolgenti, drammatici i confronti tra Vittorio (puntuale Giuseppe Lanino) e Nicolino (bravo Francesco Villano), esilaranti i confronti tra Tommasino e Pasqualino (ottimo Michelangelo Dalisi) e si arriva ben presto al punto di rottura: come si sa, la realtà irrompe con i suoi problemi all’interno del presepe, l’adulterio di Ninuccia viene scoperto dal marito, i simboli del Natale dietro cui ci si era illusi di trovare un simulacro di felicità vengono stipati sul carro, Concetta, in qualche modo ponte tra la realtà e il teatro-presepe, non può che mestamente trascinarli via insieme al marito che, canticchiando Tu scendi dalle stelle, sale anche lui sul carro per essere portato via. Ogni illusione è caduta, il presepe è ormai in pezzi, la povera mente di Luca è frantumata e spezzata: può cominciare il terzo atto.

Del presepe, nella mente ferita di Luca, nell’ultimo atto è rimasta solo la stalla: al centro, in un buio opaco dentro il quale la luce scolpisce i personaggi come in un quadro di Caravaggio, una mangiatoia dentro cui è riverso il corpo nudo dello stesso Luca, Gesù Bambino di un allucinato Natale; accanto una Madonna nera, Addolorata che ha i tratti di Concetta, cerca d’assisterlo e di confortare come può il delirio del moribondo; un angelo con le fattezze di Raffaele, il portiere (strepitoso Leandro Amato), porta il caffè. Latella preferisce affidare al lungo racconto di questo personaggio il chiacchiericcio impiccione e fatuo tra i vicini di casa che sostano nella casa di Luca – di fronte alla capanna, come pastori in attesa – e che sono in qualche modo l’eco della vita che continua, con le sue piccole cose, desideri, invidie. Il crescente brusio dei vicini arriva in platea più che altro come rumore di fondo, diventa murmure che si fa musica, mentre i personaggi cominciano il canto (dapprima con melodia monocorde, poi in modo sempre più articolato e complesso) delle loro battute e delle didascalie che l’accompagnano. La trasfigurazione della vita in teatro – e teatro rigidamente strutturato in forme chiuse – tocca il suo apice: entra il dottore, impersonato da un attore che finora – sempre con la sua mascherina cieca – si era aggirato per il palco trascinandosi appresso un avatar in forma di scimmia (il tenore Maurizio Rippa). Intona la Calunnia dal Barbiere, agganciandosi al fatto che poco prima Concetta aveva riferito alla confusione di Luca che l’aveva scambiata per il don Basilio del Barbiere, visto al San Carlo tempo prima, ma soprattutto con riferimento alla calunnia subita dallo stesso Luca (di aver favorito la tresca della figlia) e che l’ha ridotto “avvilito e calpestato”. Più tardi arriverà Vittorio cantando l’aria d’Almaviva Ecco ridente in cielo alla sua bella e il povero Luca lo scambierà per Nicolino, dando ai due amanti la sua benedizione. Alla fine, di fronte all’ultima domanda “Tommasi’, te piace’ ‘o Presebbio?”, Tommasino non solo risponderà sì, ma, dopo aver baciato la mano al padre, lo soffocherà con un cuscino. Poi, ricoperto il corpo di Luca con erba, attenderà l’arrivo di un bue e un asinello di pezza portati in scena da due bambini, a ricomporre, adesso sì, un ideale presepe, quello dell’ultima didascalia dell’opera, l’unica non letta ma rappresentata, la “visione incantevole… dove un vero asinello e una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo…”.

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