[rating=4] Ha cinquantadue anni, Goldoni, quando scrive Gl’innamorati: è a Bologna, in viaggio da Roma a Venezia, e sente che qualcosa sta cambiando, dentro di sé – frutto della maturità umana e professionale – e fuori di sé, nella società ch’evolve e muta non sempre secondo i nostri desideri. Si trova così a meditare – sembra anche sulla spinta della diretta conoscenza d’una coppia di giovani innamorati friccicarelli – sul più elementare ma anche più complesso e fecondo dei sentimenti: perché, se è vero che “in quasi tutte” le commedie, “l’onesto amore è il principale movente della Comica azione”, allora “questa commedia… dee rappresentar un amore più violento di tutti gli altri”. Ma quale violenza si vuol descrivere? E in quanti diversi modi può incarnarsi, l’amore, o, meglio, l’innamoramento? Non sarà certo l’amor tragico che racconta il Bardo: gli amanti goldoniani non sembran di sicuro, come Romeo e Giuletta, archetipo dell’amor che muore eternamente giovane, simbolo e personificazione della mistica neoplatonica del secolo della rinascita; e naturalmente neppur l’amore romantico della musica di Wagner: il Liebestod s’addice a Isolde e alle fosche brume del nord, non sembra alla solare, seppur capricciosa, Eugenia. È dunque l’amor borghese – gravato d’altra e più insidiosa specie di violenza – che interessa Goldoni, sensibile alle pressioni sociali e alla dote delle signorine di buona famiglia, nato tra decadute mura intonacate e dalla rovinata boiserie, allevato e accudito tra il lento decadere d’una ormai inutile nobiltà e l’aggressivo emergere della rampante genìa dei nuovi ricchi: amore che, modernamente, cerca e trova in se stesso il contrasto, che sembra leggero e futile, che rapido scorre e passa tra abbracci e ripicche, risolini e minacce d’abbandoni; amore che strappa più d’un sorriso ma che in sé nasconde, sotto la finzione della commedia, l’opaca disperazione dell’impossibilità di compiutamente e totalmente amare.
E così la “stanza comune, in casa di Fabrizio, in Milano”, unica scena in cui è ambientata la commedia, ha proprio, per scelta della regista Andrée Ruth Shammah, l’intonaco in più punti scrostato e un senso vago di sopravvenuto decadere: entra, a luci in sala ancora accese, il vecchio servo Succianespole (Andrea Soffiantini) che dà fuoco alle poche e superstiti candele dei quattro lampadari che pendono dal soffitto, illuminando una scena costruita dal nulla e dall’immaginazione: due relle coi costumi vengon trascinate di là e di qua a inventare quinte, sipari e porte, mentre gli attori vestono in scena gli abiti e cambian perfino personaggio sotto gli occhi nostri: sono, i costumi, intessuti di pallidi pastelli o francamente bianchi o crema, suscitando, ma solo a tratti, vaghi ricordi del secolo dei lumi, per il resto risultando senza tempo, testimoniando forse per fissità eterna e remota, e tuttavia lieve e dall’inconsistenza futile e fragile ch’è propria del sogno e della recita. Si muovono, allora, gli attori, in questo quadro. entrando e uscendo dai personaggi e dalla commedia, in apparente libertà, spostandosi su tre livelli: il primo è quello – ovvio – dei personaggi che recitano sulle parole scritte dall’autore; il secondo è quello dei commenti: in parte già previsto da Goldoni, che adotta per questo lavoro una struttura (quasi) metateatrale, prevede che i personaggi commentino tra loro su quel che sta succedendo, sulla pazza gelosia d’Eugenia (ottima Marina Rocco), sulla costanza dell’amore di Fulgenzio (Matteo De Blasio), sulle perdute sostanze di Fabrizio (Marco Balbo); il terzo livello è quello degli attori, che si spogliano infine d’ogni residuo del personaggio per discutere, recriminare, sindacare, chiarire: come ad una prova. C’è perfino il regista, ovvero l’autore, che s’alterna col personaggio di Ridolfo (Alberto Mancioppi), l’avvocato amico di Fulgenzio: quando non impegnato in scena, il che può capitare sia sotto le vesti di Ridolfo, sia sotto quelle di Goldoni, siede su una sedia da regista, sulla cui tela del dorso è scritto a chiare lettere “GOLDONI”, posta all’estrema destra, sul limitare del boccascena. Scena e costumi (di Gian Maurizio Fercioni) e livelli della drammaturgia (di Vitaliano Trevisan) così impostati, costituiscono dunque la perfetta struttura sulla quale la regista fa muovere gli attori, restituendo, alla fine, uno spettacolo di gran godimento, ben degna messa in scena d’un lavoro che, da sempre ebbe fama d’essere “una delle migliori opere che abbia scritte il celebre autore”.
E vedi allora gli attori che vengono pian piano conquistati e presi, coinvolti in quel che un quasi dimenticato sociologo circa quarant’anni fa definiva come lo stato nascente di un movimento collettivo a due, che in questo caso s’allarga, si diffonde, si propaga come auretta assai gentile a tutti gli attori e i loro personaggi: quasi ti sembra visibile – a teatro è il vero piacere – la felicità con cui essi partecipano del ritmo della commedia, che non dà tregua, come una perfetta partitura mozartiana o un crescendo rossiniano. Ma, come in un perfetto cielo terso suscitato dalla musica di Mozart, intravedi a un tratto una nuvoletta, e t’accorgi, poi, poco più avanti, che quel cristallo perfetto era stato creato solo per servir da sfondo a quell’insignificante neo, a quel piccolo difetto, che potrebbe allargarsi, oppure del tutto dissolversi, chissà: t’accorgi pian piano, cioè, che non è così distante il piano della comicità da quello della tragedia, che l’inquieto disagio che provi guardandoti dentro t’annuncia che il dramma è qui, dietro l’angolo, pronto a trasformar la risata in singulto, sì che l’Eugenia, che pure alla fine invita: “quelli… che si trovassero nel caso nostro, alzin le mani, ed applaudiscano alle nostre consolazioni” nell’inevitabile happy end del matrimonio, non sembra di gran lunga, poi, così distante da Giuletta o da Isolde: eguale, infatti, è la follia che le accomuna, ciò che comunemente vien chiamato innamorarsi, sotto il velame sottile e traslucido della finzione scenica.