Un processo indiziario, senza testimoni oculari né prove. Un uso tendenzioso della giustizia. Un processo di stato, messo in scena contro un uomo probo, colpevole solo di essere ebreo, nella Germania del Terzo Reich.
Nei suoi confronti, anche l’ultima parvenza del diritto si torce, ribaltando nel suo contrario il principio della presunzione d’innocenza, poiché l’imputato appunto è ebreo.
Il caso Kaufmann, ispirandosi a una vicenda realmente accaduta, porta in scena il dramma di un commerciante tedesco a capo della Comunità ebraica di Norimberga, condannato nel 1941 dal Tribunale speciale per inquinamento della razza, sotto la falsa accusa di avere avuto rapporti con una donna ariana. È tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Grasso (Rizzoli 2020), giornalista già più volte segnalato per il suo impegno civile.
Di reale, solo il pettegolezzo ovvero le proiezioni della gente. Testimoniano vicini, avventori, una domestica, alla ricerca di una vittima cui fare pagare un sentimento indistinto di insoddisfazione: l’uomo diviene così il capro espiatorio della loro infelicità, derivante forse da malcontento sociale, impotenza, ignavia, solitudine.
Tutto inizia quando il bravuomo accetta di ospitare una giovane donna, figlia di un caro amico in un appartamento di sua proprietà, in cambio di un canone modesto.
Un sentimento paterno si mescola in lui, anziano vedovo, con la fatale attrazione che la ragazza esercita sulla sua natura sensibile. Confusione a cui egli resiste, adottando senza indugio, da uomo saggio qual è, l’unico comportamento plausibile.
Ma questo non soddisfa l’invidia comune, quel bisogno di schadenfreude che i tedeschi ben conoscono, a costo di provocare sventura nel prossimo, e senza rimpianti, perché in fondo l’ebreo Kaufmann se l’è meritata: c’è sempre qualcosa di cui essere colpevoli, anche a propria insaputa.
E invece lui un senso di colpa lo prova veramente: quello di avere compromesso per leggerezza la reputazione della giovane tedesca, a sua volta presa da un sentimento edipico legittimo.
Ma nonostante ciò, sarà un prete cattolico ad assolverlo simbolicamente prima dell’esecuzione, promettendo di farsi testimone della sua trista vicenda, di fronte ai posteri. Dio vede nel cuore degli uomini, cui solo il Giudizio potrà restituire pace.
Nei panni della vittima di questa clamorosa mistificazione, frutto di un’ideologia obnubilante, c’è Franco Branciaroli, che, nei pochi istanti che separano il suo personaggio dal regno delle ombre, ricostruisce i fili di una trama oscura nel tribunale della sua coscienza. Gli presta orecchio il cappellano del carcere di Stadelheim, chiamato in realtà a farsi latore di un messaggio rivolto alla ragazza. Kaufmann ripercorre anche le tappe della Storia che abbiamo studiato a scuola: le leggi di Norimberga, la Notte dei Cristalli, l’invasione della Polonia. La perdita del commercio e dei suoi diritti di cittadino.

Sempre razionale e controllato nella manifestazione del dolore, non dubita di avere agito per il meglio, se non quando alla fine ironizza sull’occasione mancata di una sola notte d’amore, che lei avrebbe voluto, ma che lui le ha risolutamente negato. Non nasconde mai la sua vulnerabilità.
Branciaroli trova una complice magistrale in Viola Graziosi, nel ruolo di Irene Seidel, una ragazza autonoma e volitiva, consapevole del proprio valore, in una società che non se ne cura: è la credibile antesignana delle battaglie per l’emancipazione femminile, capace d’accettare la forma di un matrimonio di convenienza, senza rinunciare al diritto di parola, proprio quando le viene negato. Viene tradita, abusata e poi condannata ai lavori forzati per falsa testimonianza. Guadagnerà la medaglia di vedova di guerra, in un’epoca non ancora pronta a riconoscere alla donna i suoi diritti universali e inalienabili. E sarà lei la seconda vittima.
Gli altri recitano un copione a soggetto, il cui esito è noto prima del dibattimento. Strumento essenziale ne è Eva Greese, la domestica affidata a Franca Penone, che non ignora alcune cadenze comiche della sua omonima Valeri, espressioni di un certo qualunquismo piccolo borghese.
Segue il presidente del Tribunale Speciale Oskar Rothenberger, abile nel rigirare in modo capzioso gli argomenti della legge: Piergiorgio Fasolo. Mentre ad Alessandro Albertin spetta il compito di difendere, senza successo, l’ultima ombra di ciò che fu diritto, nei panni dell’assistente tirocinante Herbert. Stefano Santospago regala al ruolo di Padre Höfer, già interpretato da Graziano Piazza, miti e umani accenti di solidarietà.
Rigoroso il dispositivo scenico di Domenico Franchi che racchiude in una cornice di quinte nere, due spazi giustapposti, a rendere l’uno il tempo della memoria e l’altro quello dell’atro presente dell’elaborazione, avvolto nel chiarore livido di una luce al neon. Sullo sfondo incombono le funeste insegne del potere e si accende il rogo delle sinagoghe, attraverso le luci vermiglie di Cesare Agoni. Un plauso va evidentemente alla precisa regia di Piero Maccarinelli, tanto debitrice del nostro miglior teatro di regia.
A redimere la decapitazione finale della vittima, il perdono invocato da Amazing Grace, quasi modulata a nome di tutto il popolo tedesco, complice dell’immane tragedia del Novecento.