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Woyzeck. Lo stagno e l’abisso

Il capolavoro incompiuto di Büchner nell’allestimento crudo e visionario dei Berliner Ensemble, in prima nazionale al Festival dei Due Mondi di Spoleto.

Woyzeck foto Birgit Hupfeld

È nello stagno che tutto comincia e tutto finisce. Una pozza d’acqua in proscenio, nera come il buio dell’anima, dove Woyzeck si specchia prima ancora che lo spettacolo abbia inizio. Lì si lava, lì si schizza. Lì uccide. È l’ossessione che lo trattiene a sé, lo specchio che lo rimanda a un’immagine che non riconosce più. È l’abisso in cui precipita senza appiglio. Nella prima nazionale a Spoleto per il Festival dei due Mondi di Woyzeck dei Berliner Ensemble, con la regia viscerale di Ersan Mondtag, l’acqua non purifica: inchioda. Come la società che divora chi non riesce a starne al passo.

«Ogni uomo è un abisso, si ha un senso di vertigine quando si guarda in basso». Georg Büchner ha solo 23 anni quando scrive queste parole, eppure sembra parlare con la voce dell’eternità. Woyzeck, lasciato incompiuto alla sua morte nel 1837, è un testo-limite: poche scene, una lingua tagliente, un protagonista ai margini, consumato dalla miseria, dalla gelosia, dalla solitudine. Un dramma frammentario e lucido, che anticipa il naturalismo, il teatro dell’assurdo, il brechtismo. Qui il proletario non è redento né riscattato, ma lasciato solo, con il coltello in mano, nel cuore di una società che lo riduce a cavia, a bestia, a mostro.

Woyzeck foto Birgit Hupfeld
Woyzeck foto Birgit Hupfeld

La riscrittura scenica dei Berliner Ensemble, storica compagnia fondata da Bertolt Brecht nel 1949, resta fedele allo spirito del testo e ne esaspera i margini più perturbanti. Lo fa senza retorica, con un taglio chirurgico. Non ci sono cornici storiche rassicuranti: Woyzeck è uno di noi. Vittima di esperimenti medici, sottoposto a violenze psicologiche, umiliato da una gerarchia arbitraria e feroce, cerca uno spazio per esistere, senza trovarlo mai.

Ersan Mondtag, artista visivo e regista fra i più potenti della scena contemporanea, firma un allestimento visivamente e concettualmente feroce. Ambienta la vicenda in un accampamento isolato tra gli alberi: un bosco da fiaba nera, prevalentemente notturno, fatto di tende e umidità, più vicino a una setta paramilitare o a un branco che a un vero esercito. La violenza scorre sottopelle, pronta a esplodere.

Woyzeck foto Birgit Hupfeld

Ma al centro, come un buco nero, c’è lo stagno. Elemento scenografico e metaforico, è lo spazio del rito, del sangue, della colpa. Mondtag dosa ogni gesto, ogni suono, ogni ombra con precisione rituale. E intanto innerva l’allestimento di un’intelligenza politica tagliente: Woyzeck diventa la storia di un corpo sacrificabile, di un individuo schiacciato da una società che osserva senza agire.
Il bosco è un microcosmo chiuso, saturato di mascolinità tossica, dominio, sopraffazione. Il suono ricorrente dell’elicottero, e il timore costante di essere scoperti o puniti, è lo spettro del panopticon contemporaneo: un potere invisibile che sorveglia dall’alto, seleziona, condanna.

Mondtag non offre soluzioni. Ma ci mostra, con lucidità disturbante, cosa accade quando una comunità si richiude su se stessa e inizia a divorare i suoi corpi più fragili.
Con la consueta cura per il dettaglio, costruisce un dispositivo scenico che trasforma ogni oggetto in elemento drammaturgico. Il realismo si piega al sogno. La cronaca si fa allucinazione.

L’intero cast è straordinariamente compatto, capace di restituire una tensione continua tra corpi, spazi, suoni. Le interpretazioni sono tutte intense, partecipi, fisiche.
Restano impresse alcune immagini crude e potenti: il ritorno dalla caccia, i corpi sporchi di sangue, chi si deterge nello stagno, chi squarta l’animale, Woyzeck che taglia la legna con furia meccanica.

Woyzeck foto Birgit Hupfeld

Nel corpo e nello sguardo di Maximilian Diehle si concentra tutta la vertigine di Woyzeck. È già in scena, immobile, a sipario chiuso: occhio scintillante, febbrile, da animale braccato, come se la follia fosse già sedimentata dentro di lui prima ancora che la vicenda cominci. I capelli lunghi e unti, la figura smilza e scarnificata, amplificano una presenza disturbante, fragile, ossessiva. Non c’è gradualità nella sua discesa: il suo Woyzeck è già spezzato, e il lavoro attoriale si gioca in una tensione costante tra controllo e disgregazione. Diehle non interpreta: incarna. Non chiede empatia, ma espone, e costringe a guardare nel profondo del suo abisso. Accanto a lui, Marie è una figura altrettanto potente. Gerrit Jansen, en travestie che volutamente incrina il realismo dell’impianto, le restituisce una carica fisica e drammatica dirompente. Il suo corpo, forte, risoluto, ma attraversato da incrinature profonde, è la materia viva del conflitto: madre, amante, preda, complice. La sua Marie è tragicamente viva, e proprio per questo destinata a soccombere.

Il suono è protagonista tanto quanto la scena. La colonna sonora composta da Tristan Brusch, eseguita dal vivo, è uno degli elementi più intensi e coerenti dell’intero allestimento. Nessun compiacimento virtuosistico, nessuna ricerca di dissonanze forzate: al contrario, una musica armonica, melodica, a tratti popolare, costruita attorno a ottoni e fiati che sembrano emergere direttamente dal ventre del bosco. I momenti più potenti nascono proprio dall’interazione tra i musicisti in scena e il resto del cast: una fusione organica, corale, che non accompagna semplicemente l’azione ma la integra, la nutre, la trasforma.

Woyzeck foto Birgit Hupfeld

Tra questi, resta indimenticabile la danza circolare dove la musica si fa rituale, collettiva, ipnotica. È un cerchio sacro e crudele, dove il sangue e la melodia si uniscono in un unico gesto teatrale.

E proprio alla fine, quando tutto sembra perduto, qualcosa accade. Un suono dall’alto, una luce che taglia il buio, un gesto che interrompe la spirale. Mondtag non cerca il colpo di scena: lascia un segno. Un’immagine ambigua e sospesa, soccorso o prelievo, che non chiude ma rilancia.

Woyzeck è uno spettacolo che ti cammina accanto anche quando è finito. Ti riporta al presente senza gridare, ma con il peso insostenibile dell’evidenza. In un’Europa di nuove guerre e vecchie gerarchie, dove la dignità umana sembra spesso materia negoziabile, il ritratto di un uomo che perde tutto perché non ha nulla ci interroga nel profondo. Non c’è morale, non c’è redenzione. C’è solo uno stagno nero in cui ci riflettiamo tutti. E la vertigine di sapere che l’abisso, stavolta, ci guarda da dentro.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Musiche di scena
Pubblico
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woyzeck-lo-stagno-e-labissoWoyzeck <br>di Georg Büchner <br>regia e scene Ersan Mondtag <br>assistente alle scene Alexander Naumann <br>costumi Ari Schruth <br>musica Tristan Brusch <br>luci Rainer Casper, Hans Fründt <br>drammaturgia Clara Topic-Matutin‍ <br>Woyzeck Maximilian Diehle <br>Tamburmaggiore Max Gindorff <br>Andres Gabriel Schneider <br>Marie Gerrit Jansen <br>Dottore Marc Oliver Schulze <br>Capitano Peter Moltzen <br>Matto / Infermiere Peter Luppa <br>Bambino Robert Carstensen ‍ <br>musica eseguita live da Fabian Adams, Paul-Jakob Dinkelacker, Max Kraft, Jan Landowski, Felix Römer, Felix Weigt ‍ <br>produzione Berliner Ensemble <br>in coproduzione con lo Scharoun Theater Wolfsburg ‍ <br>prima italiana

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