Sottotitolo: Il piccolo capolavoro di Putéca Celidònia ibrida genialmente i beckettiani Giorni Felici in un basso napoletano
Probabilmente quando Beckett scrisse Giorni Felici, non avrebbe mai neppure lontanamente immaginato che la minuta conversazione piccolo-borghese di Winnie e Willie finisse rimasticata genialmente nel dialogo quotidiano di due coniugi napoletani in un cosiddetto “basso”. ‘O vascio, per dirlo in termini partenopei. Una piccola, a volte piccolissima abitazione di non più di due vani posti al pianterreno e direttamente con affaccio su strada, tipica di alcuni quartieri della Napoli più popolare.
Eppure la parabola umana della povera Winnie letteralmente “sotterrata” dalla sua stessa esistenza di giorni “felici” e identici, non è poi così distante da quella dei veri abitanti di questo perfetto prodotto di sobborgo urbano. L’azzeccatissimo parallelismo nato dall’intuizione del collettivo Putéca Celidònia è il risultato di Felicissima Jurnata in scena al Teatro Vascello di Roma dal 13 al 18 maggio 2025.
Forse, azzardo audacemente, neppure la bellissima visione di Streheler con la splendida Giulia Lazzarini al Piccolo di Milano nell’82 potè così tanto in termini di forza evocativa. Di quella rappresentazione non restano (almeno a me) che scritti parsi e la penna dietro questa recensione non può che avvalersi dei giudizi di commentatori di un’epoca in cui nemmeno era nata. Così come ahimè non potei assistere alla versione dell’immensa Anna Marchesini nel 2008. Quanto sarebbe stupenda a tal proposito una mediateca nazionale online di immediata facile e magari gratuita fruizione che raccogliesse tutti questi pezzi dispersi di storia teatrale?
Ad ogni modo Giorni felici rappresenta uno dei testi che personalmente amo inserire fra i capolavori assoluti del teatro, a braccetto con Aspettando Godot (di cui ho curato qui una recensione nella declinazione di Terzopoulos), di cui sembra in qualche modo una sorta di estensione. Due capisaldi della drammaturgia beckettiana che ci raccontano ieri, ora e sempre qualcosa della condizione umana. Va detto però che data anche la pratica di Beckett ed eredi di incatenare letteralmente testo e scena perchè non possano in alcun modo essere violati, forse parlare di “versione” nel caso di Felicissima Jurnata è improprio. Certo l’ispirazione è palese, ma si tratta di un altro spettacolo che tesse, e manco in modo così figurato, tutt’altra “trama”.

L’autore e regista, classe 1995, Emanuele D’Errico, attinge alla realtà del basso napoletano registrandone veri dialoghi, rumori della strada, i brevi talvolta irresistibili scambi quotidiani di persone che vivono ai piedi del mondo. C’è una sorta di strana magia che si consuma in questo incontro fra il genio di Beckett e il talento di D’Errico. Tanta parte la fanno sì il testo e la bravura degli attori, ma pure le scene di Rosita Vallefuoco realizzate da Mauro Rea e i costumi di Rosario Martone.
Il tumulo quasi vulcanico da cui emerge e poi sprofonda Winnie, si trasforma in una sorta di enorme paralume, di cui la Winnie-Lina veste e tesse l’ordito. Una ragnatela in origine rossa nella residenza presso Corte Ospitale, che Willie-Lello lega alle estremità della casa, in un girotondo di fili attorno alla sedia in cui è inchiodata la moglie. E Lina invece che nella terra, annega in una matassa. Al Vascello però il rosso diventa blu, ammiccando al sogno di un cielo invece schiacciato fra quelle quattro mura sempre così strette. Due espressioni diverse e ugualmente efficaci di immobilità.
Nel piccolo-grande cerchio disegnato dalla seduta-abito di Lina, Lello si muove lentamente, come in un microcosmo di piccoli gesti ripetitivi e gramellot di neiwilleriana memoria, che ricorda pure atmosfere steampunk. È tutto così perfettamente “incastrato” e non uso a caso il termine, che faccio fatica io stessa a non restarne felicemente intrappolata, senza scadere nell’aggettivazione compulsiva.
Questa non è una riscrittura, è un lavoro intenso e raffinato che ci restituisce un costrutto drammaturgico ricchissimo. La regia non fa che accogliere la parola e mostracela ingabbiata, circolare, quasi liturgica, in un’inifinita litania di piccole risposte, automatismi, small talking. Gli danno voce e corpo Antonella Morea e Dario Rea. Lei esondante, prolissa, comicamente esacerbante, lui meccanico, distopico, assente al limite dell’autismo. Perfettamente calibrati. Fantastici, nient’affatto renitenti nel raccogliere l’eredità pesantissima di Beckett.
Il loro è un dialogo fra sordi grottesco e profondo al tempo stesso. Lina cerca di esprimere continuamente sè stessa in quella chiacchiera infinita, nel semplice desiderio di darsi un senso, mentre affonda nell’assertività mugugnesca di Lino. Lui dal canto suo è già chiuso, ammutolito da tempo nel suo universo di piccolezze. Non succede niente e succede tutto. In Giorni Felici Winnie ha una rivoltella che non usa mai, tradendo l’assunto cechoviano per cui quello che c’è in scena deve servire a qualcosa. Ma forse il mancato suicidio, estremo atto di autoaffermazione in una vita di cui perdiamo il senso, in realtà esiste, non esistendo sulla scena. Perché accettarla quella mancanza di senso è un atto di potere a cui Winnie-Lina non può essere abituata. E che resti allora sospesa, postulata, pure quella, avvolta dal ricordo tenero dell’amore che fu e che non può sopravvivere spezzato. Anche nell’infelicità.
Si va sempre oltre nel basso, nella povere, nell’attesa di un Godot che ci risolva, ma poi tutto è ancora limbo. Quale metafora migliore per i nostri lunedì frenetici o lentissimi ma in fondo così uguali? Flaiano diceva che nella vita i giorni che fanno la differenza sono giusto un paio. Il resto fa volume. Felicissima Jurnata ci racconta in maniera unica e splendidamente crudele questo spazio, in un gioco di vuoti e pieni sul filo dell’ossimoro. Su questo filo in fondo consumiamo il più dell’esistenza, come Lina e Lello al Rione Sanità. Ma facciamo finta di no. Matilde Serao che visse in un basso di Piazzetta Ecce Homo scrisse che si mangia e si muore nella medesima stanza in cui altri hanno mangiato e sono morti. Non trovo sintesi migliore per chiosare.