Home Teatro Costellazioni: dalla teoria quantistica all’esistenzialismo filosofico, una pièce incantevole

Costellazioni: dalla teoria quantistica all’esistenzialismo filosofico, una pièce incantevole

[rating=4] Sul finire degli anni 50 in America un fisico di nome Hugh Everett teorizzò l’idea di una realtà non univoca, dove tutto ciò che accade si verifica in infinite possibilità, diverse fra loro, ma ugualmente valide nello stesso istante in cui si realizzano. Si trattava di una sorta di spin-off molto più audace del cosiddetto paradosso di Schrodinger, secondo il quale esistono due realtà parallele, nel momento in cui l’osservatore verifica quale si sia effettivamente avverata, l’altra semplicemente svanisce. Per la fisica quantistica classica insomma, il nostro universo, per farla spiccia, è bipartisan o meglio, vale la realtà che alla fine emerge sull’altra, ogni evento può prendere due vie, quando la coscienza ne sceglie una, l’altra non fa altro che scomparire, non esiste più. Per Everett invece esiste eccome anche la realtà che non si verifica; e non solo quella.

Per banalizzare al massimo (venia ai lettori più avvezzi alla materia) persino noi essere umani, che in fondo non siamo altro che agglomerati d’atomi, esistiamo in più mondi, siamo infiniti, ogni cosa che facciamo prende infinite diramazioni, le nostre vite sono un continuo snocciolarsi di eventi che corrono lungo arterie spazi-temporali parallele e tutte vere, reali. Siamo in sintesi completamente privi di senso.

Costellazioni

Impossibile non rimanere affascinati da questa teoria quantistica così vicina a certe speculazioni filosofiche sull’insensatezza del nostro esistere, Nick Payne talentuoso drammaturgo inglese ne ha colto al volo le potenzialità artistiche e ha portato questa infinita declinazione di possibilità in teatro, applicandola al sentimento più complesso e sfuggente mai osservato: l’amore. Eccoli allora i nostri “infiniti” Marianna e Orlando, lei inquieta ricercatrice e lui amabile apicoltore, ci raccontano sul palco illuminato dalla bella (anche se poco ardita) illuminotecnica di Tiberi al Vascello, la loro “infinita” storia d’amore, con le stesse identiche battute, dialoghi che in contesti e inclinazioni diverse assumono significati opposti, pur non variando di una virgola. Un esercizio di stile che strega, niente da dire, anche nell’adattamento di Silvio Peroni, bravi gli attori, ma Alessandro Tiberi vince per misuratezza e bravura sulla Sikabonyi, un po’ troppo stridula; pièce incantevole, che lascia il segno, interrogandoci senza imbarazzo su quella volta che sì… chissà l’altro/a me cosa avrà detto, cosà avrà fatto in quella strana situazione che ancora ci fa sospirare…

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