[rating=3] La vita trasgressiva, fatta di sogni, di danza, di amori brevi e ripetitivi, di utopie e illusioni, in fondo è un Cabaret, un luogo non luogo, dove non c’è spazio per la sostanza ma solo per i riflettori di scena, per l’oblio dei propri mali e per il canto gioioso delle proprie speranze, almeno finché le luci restano accese e l’inganno della scena regge.
E proprio Cabaret è il titolo dello spettacolo portato in scena a Roma dalla Compagnia della Rancia, al Teatro Brancaccio, consacrato alla notorietà da Liza Minnelli nell’omonimo film del 1972 e ambientato nella Germania degli anni ’30, poco prima dell’ascesa del Terzo Reich, nel Kit Kat Klub, un locale di Berlino che ospita una successione di personaggi che della lussuria e della vanità fanno il cardine della propria esistenza, ruotando attorno al loro impresario, per l’occasione magistralmente interpretato da Giampiero Ingrassia.
Tra i tavolini del locale, nella nuvola di fumo delle sigarette consumate dagli avventori, tra le cosce delle ballerine mezze nude, si snodano incontri e amori sempre nuovi, come quello di Cliff (Mauro Simone), speranzoso romanziere americano dai saldi principi e di Sally Bowles (Giulia Ottonello), giovane ragazza in cerca di un’occasione per lanciarsi nel mondo dello spettacolo.
A questo amore giovanile, tumultuoso e pieno di chimere, fa da contraltare quello di Fräulein Schneider, proprietaria della pensione presso cui i giovani alloggiano che, alla soglia della senilità, quando ormai ci si rassegna a fare i conti con la propria esistenza solitaria, viene chiesta in sposa dal timido e riservato Herr Schultz, anziano proprietario di un negozio, rimasto vedovo e a lei profondamente devoto.
Schultz però è un tedesco di origine ebraica e il matrimonio tra i due potrebbe far perdere la licenza di affittacamere alla Schneider. Sarà più forte il regime o l’amore, la minaccia delle conseguenze catastrofiche della follia hitleriana o il gelo della solitudine?
Il primo tempo dello spettacolo è il tempo dell’euforia, del lievitare delle speranze e il crescendo si sente anche a livello musicale. Il secondo tempo, invece, è il tempo della mannaia a cui ci si sottrae tentando di vivere come si faceva prima, nonostante il prima sia definitivamente compromesso. Non sorprende quindi che la chiusura sia in sordina: la musica, infatti, rallenta e abbassa i toni, così come frenano, inchiodano, si stravolgono, le vite dei protagonisti sotto l’ombra incombente del Reich.

Sotto l’attenta regia di Saverio Marconi, volta costantemente a rammentare la precarietà della vita di scena in analogia con quella dell’esistere, Giampiero Ingrassia ribadisce la sua statura di esperto calcatore di teatri. Sempre più brava, sicura ed esuberante si rivela, invece, Giulia Ottonello che si può definire, in sostanza, il cuore pulsante dello spettacolo e la vera mattatrice del sipario con delle vocalità superbe a livello canoro e la disinvolta freschezza con cui interpreta la fragile anima di Sally, fortemente attenta al proprio microcosmo quanto altamente disinteressata rispetto al macrocosmo in cui è calata la sua vita.