Con Der junge Lord (1964), Hans Werner Henze realizza una delle più articolate e affilate satire borghesi del teatro musicale del secondo Novecento. Sotto la direzione di Markus Stenz e con la regia di Daniele Menghini, il nuovo allestimento del Maggio Musicale Fiorentino coglie pienamente la natura poliedrica dell’opera: una commedia musicale che traveste la critica sociale con le maschere deformanti del grottesco, allineandosi a un filone che guarda a Brecht, a Ligeti, ma anche a Rossini e Offenbach.
L’opera si articola in due atti e, sebbene presenti le caratteristiche esteriori dell’opera buffa (concertati, recitativi, arie di carattere, ensemble), si muove piuttosto nel territorio dell’opera satirica postmoderna, con un uso sapiente del paradosso e dell’iperbole. Il libretto, firmato da Ingeborg Bachmann, trasforma una novella fiabesca ottocentesca in una critica feroce alla conformità piccolo-borghese e ai meccanismi di esclusione del diverso.

La regia di Menghini ha colto e sviluppato questa duplicità con grande lucidità, lavorando sulla dimensione farsesca senza mai scivolare nel cabaret facile, ma anzi accentuando l’ambiguità semantica degli oggetti e dei gesti: la gonna rosa del Segretario, i rituali sociali deformati, le posture “animate” degli abitanti di Hülsdorf-Gotha contribuiscono a un teatro della crudeltà travestito da vaudeville. Splendide le scene favolistiche di Davide Signorini, con i bei costumi di Nika Campisi e luci di Gianni Bertoli.
La partitura di Henze è un capolavoro di ambiguità stilistica: recupera modelli sette-ottocenteschi (Mozart, Rossini, persino Humperdinck) e li rielabora attraverso la lente di una tonalità estesa, talvolta sfocata, talvolta abrasiva. Il compositore, che aveva attraversato Darmstadt e conosciuto il serialismo, impiega qui un linguaggio diacronico, che alterna e sovrappone stili disparati con una coerenza drammaturgica che risulta quasi cinematografica.
È la musica stessa che veicola il senso dell’opera: ogni personaggio è scritto con una tipizzazione sonora estrema, quasi caricaturale, eppure Henze riesce a evitare l’effetto puramente comico. Il giovane Lord, per esempio, “parla” attraverso gesti musicali spezzati e imitativi che anticipano la rivelazione finale; Luise ha una scrittura lirica che si piega progressivamente verso il perturbante. Il culmine musicale arriva nella festa dell’ultimo quadro, dove Henze costruisce un crescendo teatrale, per poi implodere in un finale straniato e amaro.
Markus Stenz ha fornito una lettura che potremmo definire “teatralmente organica”: non si è trattato di una mera concertazione, ma di una ricostruzione meticolosa della grammatica teatrale della partitura. L’Orchestra del Maggio ha risposto con prontezza alle continue mutazioni dinamiche e timbriche, mettendo in risalto i numerosi momenti di pastiche, i contrappunti ironici e le cesure formali che Henze dissemina con intenti strutturali, ma anche narrativi.
Anche la vocalità è stata trattata non solo come mezzo espressivo ma come materia scenica. Levent Bakirci ha dato al Segretario una presenza quasi “stravinskiana”, fredda e meccanica; Marily Santoro ha saputo incarnare una Luise dalla linea elegante ma non edulcorata, esprimendo la fragilità e la perdita di orientamento del personaggio nel suo assolo culminante. Matteo Falcier, nel ruolo del “giovane Lord”, ha ben sostenuto l’ambiguità performativa del personaggio-scimmia, giocando con timbri “fuori registro” e un fraseggio volutamente naïf. Esilarante l’interpretazione della cuoca Begonia di Caterina Dellaere. Efficace e bunueliano il muto Sir Edgard di Giovanni Franzoni. Bella prova anche per Marina Comparato nei panni della Baronin Grünwiesel, Andreas Mattersberger in quelli di Der Bürgermeister e Antonio Mandrillo in quelli di Wilhelm.
Der junge Lord è, innanzitutto, una riflessione meta-teatrale sul ruolo dell’apparenza e sul teatro come strumento di smascheramento. Il fatto che il protagonista sia una scimmia ammaestrata travestita da aristocratico è meno una gag e più una trovata strutturale: lo scimmiottamento diventa metafora della società che mima sé stessa, accettando il diverso solo quando questo si adatta alle sue convenzioni esteriori.
La musica di Henze rafforza questa dinamica proprio perché non si pone come antagonista della scena ma come suo doppio beffardo: laddove ci si aspetterebbe il lirismo, Henze introduce lacerazioni; laddove la situazione pare risolta, la musica insinua un dubbio ulteriore. Il risultato è un’opera in cui forma e contenuto si contraddicono a vicenda in un dialogo continuo, che chiede molto a chi ascolta ma offre in cambio una delle più penetranti letture della società moderna in musica. E la domanda alla faustiana sorge in ultimo, come ci ricorda il regista: cosa siamo disposti a sacrificare della nostra civilissima umanità per apparire meno bestiali e brutali di quanto siamo in realtà?