[rating=4] Und das Geheimnis der Liebe ist größer als das Geheimnis des Todes… (E il mistero dell’amore è più grande che il mistero della morte…). Oggi, dopo più di cent’anni dalla composizione della Salome possiamo forse ascoltare queste parole di Oscar Wilde e la musica che esse stesse “reclamano”, come dice Strauss, senza sovrastrutture di ciarpame pseudomoralistico (da una parte) e pseudolibertario (dall’altro) che ne hanno inficiato piena comprensione e fruizione per troppo tempo. Così, il Teatro San Carlo chiude qui a Napoli una stagione coi suoi alti e bassi ma che ha trovato (occorre che qualcuno rifletta su questo, forse) il massimo dei consensi della critica e del pubblico (capita a volte che sian concordi…) con due opere di saltuaria frequentazione e per giunta lontane dalla tradizione belcantista italica (distanti anche tra loro come stile e concezione), quali Onegin e, appunto, Salome. Merito del valore intrinseco delle due opere, certo, che non si discute, fors’anche del valore aggiunto della novità – assoluta in un caso, relativa nell’altro – che la lor messa in scena portava con sé. Ma fors’anche di due ottimi registi ch’han saputo cogliere le ragioni ultime delle due opere e, insieme, la loro significanza per noi, che non viviamo nel secolo di Puskin e Čajkovskij e nemmeno più in quello di Wilde e Strauss: in fondo è quello il compito del regista.
E così Manfred Schweigkofler, che questa Salome ha diretto, con la magnifica complicità delle scene di Nicola Rubertelli, c’immerge da subito in un liquido mondo fatto di sospese citazioni, accese atmosfere, fili spinati e simboli del potere dall’inconsistente doratura: un universo postmoderno dove trova tranquillamente patria il continuo riferimento yiddish della tradizione e, insieme, il gusto kitsch di un mondo altro; entrambi portano in sé le stimmate d’un vertiginoso vuoto esistenziale: questa è la matrice di Salome secondo Schweigkofler, sospesa tra l’esasperazione d’una pesante tradizione (oh, che bello e terribile il falso Chagall dipinto sull’assito che si riflette nello specchio ad angolatura variabile che ce ne rinvia brani diversi a seconda degli stati d’animo che su quelle tavole si vivono) e la vanesia futilità d’un potere stupido e arrogante ch’imbelletta d’azzurro gli altissimi muri di cemento armato sovrastati da matasse di filo spinato a riparo degl’incubi fobici d’Erode; questa è la matrice di Salome, nella sua desolante tragica assenza di desiderio (ch’è coscienza di limite) che si traduce, in varia misura e in vario grado – nella psicologia dei personaggi – in tensione tra i due opposti poli – facce della stessa medaglia – costituiti da un lato dalla miope nevrosi che impone quel limite e solo quello riesce a scorgere e ad amare e, dall’altro lato, all’ipermetrope perversione che pure quel limite prescrive ma soltanto per il gusto d’abbatterlo e distruggerlo. È la modernità, signori, nient’altro che il nostro moderno mondo dove non c’è più desiderio, ma solo necessità di superfluo.
Ovviamente le soluzioni registiche e sceniche, per quanto fascinose e suggestive, non bastano da sole a costruire un grande spettacolo: in un’opera lirica, è noto, la parte del leone è data dalla musica e dai suoi interpreti. Gabriele Ferro dirige con le certezze che gli derivano da una carriera lunga e meritoria che ne fa, oggi, uno dei migliori interpreti di musica moderna e contemporanea, e di Strauss in particolare; ne viene per ovvia conseguenza che nella sua Salome venga restituito al meglio il carattere “estremamente nervoso” della musica senza cader nel ridicolo o nello sperimentalismo. Unico neo, a volte la voce dell’orchestra risulta più forte di quella dei cantanti, cosa decisamente fastidiosa. Il cast: il Narraboth di Wookyung Kim dalla bella voce chiara e limpida m’è sembrato fin troppo misurato per un personaggio la cui nevrosi ossessiva per la giovane principessa lo porta inopinatamente a darsi la morte anzitempo; Erode (Kim Begley) è forse il personaggio che consente più libertà interpretativa al regista e al cantante: la scelta è stata quella di mantenerlo abbastanza sottotono, senza eccedere nelle caratterizzazioni eccessivamente caricaturali e cercando di sottolineare ogni possibile residuo di dignità lasciato libero dalle fobie e dalla lascivia; Erodiade è personaggio che non ha grande spazio, al di là dell’enorme significato simbolico della sua figura: peccato, perché così – ma non è colpa di nessuno – si son sacrificate la gran voce e le notevoli capacità interpretative di Natascha Petrinsky, già apprezzatissima in altre occasioni (ricordo sola l’ultima, la sensuale Clitennestra nell’Elektra di Gianni Amelio al Petruzzelli del febbraio scorso); Markus Marquardt ha restituito un Jochanaan ieratico e sessuofobico quanto richiede il personaggio, chiuso nel personale monocorde rapporto col suo Dio.
Ma, certo, la dominatrice del palcoscenico è stata, ovviamente, lei, Salome, una Annemarie Kremer eccezionalmente in parte, voce ben colorata in ogni zona e grandi capacità interpretative, che con grande naturalezza riesce a far cogliere i passaggi dall’una Salome all’altra, da ragazzina viziata a donna innamorata a femme folle senza mai eccedere in caratterizzazioni di maniera. E, in più, balla bene anche nella famigerata danza dei sette veli, che sta a Salome come la marcia trionfale all’Aida, croce (dei benpensanti) e delizia (dei profani); credo di ricordare due soli altri soprani che si siano cimentati nell’impresa uscendone con le ossa sane e a testa alta: una è Catherine Malfitano e l’altra è Nadia Michael. Onore al merito. Soprattutto riesce credibile, la Kremer, poco dopo, in quel finale, così complicato per un’attrice, Liebestod al contrario, canto dell’amore attraverso la morte, resa dei conti definitiva tra Strauss e padre Wagner sospesa tra due dissonanze che aprono e chiudono un’epoca, in cui si ritrova a dialogare con una testa mozzata, e deve farlo con assoluta plausibilità, senza cedimenti all’horror, al ridicolo, al grottesco. Lei, semplicemente, ci riesce.