[rating=2] Juditha triumphans devicta Holofernis barbarie è un sacrum mulitare oratorium, così definito dal librettista Giacomo Cassetti, intimamente legato alle peripezie politiche della Repubblica veneziana. Dopo due anni di guerra contro i turchi, nel 1716 le condizioni sono avverse e solo l’aiuto dell’impero asburgico è in grado di ribaltare la situazione, infliggendo all’esercito ottomano una dura sconfitta. Nella città lagunare la musica assume un’importanza fondamentale per il supporto della popolazione. Come già era avvenuto in precedenza, durante gravi e prolungati conflitti, la composizione assurge a celebrazione della vittoria, evocata dallo stesso librettista nel frontespizio e nel carmen allegoricum pubblicato in calce. La prima esecuzione, non documentata forse a causa della situazione caotica provocata dall’emergenza bellica, è accolta proprio dall’Ospedale della Pietà nel quale Vivaldi ricopre il ruolo di maestro di concerti.
Con quest’opera l’autore esalta il genere oratoriale mettendo in luce le parti corali, con rimandi costanti al coevo melodramma. La progressione dei pezzi chiusi e dei recitativi rispecchia gli stilemi allora in voga, benché l’intuizione vivaldiana assicuri qualche innovativo e geniale colpo di scena. Le due parti nelle quali si divide l’oratorio conferiscono un aspetto simmetrico al lavoro, con una ben definita caratterizzazione dei personaggi.
Il rigore formale si abbina alle intuizioni essenziali della regista Elena Barbalich interessata alle potenzialità evocative che vengono accresciute dalle suggestioni impresse grazie agli effervescenti giochi di luce (ideati dal light designer Fabio Barettin) e ai movimenti costanti sul palcoscenico. La passione pittorica trova riscontro nei tableau vivant corali i quali non mancano di richiamare lo stile di Tiepolo, Caravaggio, Orazio e Artemisia Gentileschi, fino ad una vera e propria citazione della Cena in casa Levi di Veronese. Le scene scarne di Massimo Checchetto sono intelligentemente asservite alle idee della Barbalich e poggiano sulle proiezioni, capaci di definire autonomamente gli ambienti. Opulenti, colorati e fascinosi i costumi di Tommaso Lagattolla.
L’esecuzione musicale si rivela solo parzialmente positiva, destando, di contro, svariate perplessità. Le prove più convincenti giungono da Paola Gardina e Giulia Semenzato. La prima offre una lettura luminosa della parte del confidente Vagao. L’esecuzione è attenta alla fiorita scrittura, al fraseggio sapiente e alla chiara dizione, evidente anche durante i recitativi. La seconda, nei panni dell’ancella Abra, valorizza al meglio le proprie potenzialità denotando efficace musicalità e precisione. Valida anche la prestazione di Teresa Iervolino, Holofernes alle volte un po’ uniforme, in rapporto alle possibilità vocali. L’Ozias di Francesca Ascioti risente di una problematica disomogeneità nell’emissione che risulta poco credibile. La protagonista, Manuela Custer, tratteggia una Juditha passionale in scena. La linea canora tuttavia non sembra ugualmente incisiva: all’artificiosa zona grave, si contrappone qualche asperità in acuto, limiti questi che rendono poco espressiva la prestazione. L’organico orchestrale vivaldiano, nutrito e variegato, esemplifica la ricchezza della compagine e dell’attività musicale dell’Ospedale della Pietà.
Numerose arie prevedono ampi passaggi dedicati agli strumenti obbligati, in dialogo con i solisti e con il resto dell’ensemble. L’Orchestra del Teatro La Fenice non pare pienamente affine a questo repertorio: agli udibili difetti d’intonazione s’affianca una certa carenza di coesione. Il concertatore Alessandro De Marchi propone una lettura misurata, conciliante per scelta di tempi e dal tocco personale, in rapporto alla concezione barocca diffusa. Il coro femminile, preparato da Claudio Marino Moretti, si disimpegna con valida efficacia. Il pubblico, interessato e educato durante la rappresentazione, saluta con grande energia, al termine, gli interpreti e lo spettacolo.