C’è sempre una certa emozione nel vedere tornare Macbeth a Firenze, città che vide nascere il dramma verdiano nel 1847 al Teatro della Pergola.
La nuova produzione del Maggio Musicale Fiorentino, affidata alla regia di Mario Martone e alla direzione di Alexander Soddy, avrebbe potuto rappresentare l’incontro tra tradizione e attualità, tra il magma teatrale verdiano e la sua rilettura psicologica. Ne risulta invece uno spettacolo a tratti grandioso ma disomogeneo, dove la cura musicale non sempre trova il suo corrispettivo visivo e drammatico.
L’ouverture, che Verdi concepì come compendio delle due anime dell’opera – il mistero e la violenza – parte sotto tono. Soddy sembra temere di scoprire subito le carte, optando per un tempo più disteso e una sonorità trattenuta che, se da un lato fa respirare le linee degli archi, dall’altro smorza la tensione iniziale. Solo dal secondo atto la bacchetta trova il suo equilibrio, quando il ritmo si fa nervoso, incalzante, e la scrittura orchestrale si anima di contrasti dinamici ben calibrati.
L’orchestra del Maggio risponde con professionalità e compattezza, ma la direzione rimane in bilico tra una lodevole ricerca di trasparenza e una certa freddezza espressiva. Nei grandi concertati manca quel senso di urgenza teatrale che fa di Macbeth un’opera di febbre e ossessione. Dove Soddy eccelle, invece, è nella finezza del colore orchestrale: le tinte scure dei legni e il dosaggio delle percussioni emergono con raffinatezza, e nelle scene del sonno e delle apparizioni si avverte un’attenzione timbrica che va oltre il puro accompagnamento.

Martone prosegue la sua ricerca su un teatro “interiore”, dove l’azione visibile diventa proiezione di una tempesta mentale. Le scene di Mimmo Paladino, con l’imponente sipario ispirato al Trionfo della Morte, aprono prospettive interessanti ma rimangono un preambolo isolato: per il resto lo spazio è immerso in una penombra costante, trafitta dalle luci sapienti di Pasquale Mari, in cui si muovono personaggi per lo più immobili o, al contrario, abbandonati a movimenti corali convulsi e privi di coesione. Le streghe, affidate alle donne del coro, sono tratteggiate con gestualità stereotipata, più folklorica che perturbante. Alcune immagini – come la proiezione di crude scene di distruzione a Gaza durante “Patria oppressa” – suscitano forti reazioni, ma più sul piano politico ed emotivo che su quello teatrale.
Il messaggio, pur comprensibile nelle intenzioni (un grido contro la violenza universale), risulta forse troppo diretto, quasi estraneo alla tragedia interiore di Macbeth.
Le proiezioni durante le apparizioni delle streghe, con la Lady sempre al centro, introducono un’idea interessante – la donna come coscienza visionaria del male – ma appesantiscono la scena, dilatando tempi che Verdi concepì rapidi e incalzanti. Ancora meno convincente la lunga proiezione: un flusso visivo prolisso e ridondante, che interrompe la tensione drammatica più che alimentarla. Più riusciti i contrasti di luce e buio, la fissità rituale di alcune pose, e l’immagine finale che dissolve la coppia nel vuoto scenico: un epilogo di notevole suggestione. Il vero cavallo nero che attraversa il palco, così come i nudi simbolici in alcuni quadri, restano scelte divisive: colpiscono, ma non aggiungono molto al discorso drammaturgico. Così come la scelta di far recapitare la lettera alla Lady tramite un messaggio vocale su cellulare.
Luca Salsi ormai presenza fissa nel ruolo, conferma un Macbeth solido, scenicamente autorevole e vocalmente saldo. La voce conserva un bel colore e una proiezione imponente, solo talvolta c’è la tendenza a sovraccaricare il fraseggio nei momenti di maggiore tensione. Nell’aria “Mal per me che m’affidai”, reinserita dalla versione fiorentina del 1847, pur restando discutibile l’inserto stesso per la coerenza complessiva dell’opera, Salsi trova il suo momento più intenso: un monologo di dolore trattenuto e consapevole.
Vanessa Goikoetxea affronta il ruolo della Lady con determinazione e musicalità. Il timbro, chiaro e penetrante, si adatta bene alla tessitura acuta, ma nelle zone più scure la voce perde corpo e colore. La cantante compensa con un fraseggio accurato, anche se manca ancora quella sensualità cupa e inquieta che rende memorabile la Lady verdiana. “La luce langue” scorre con eleganza, ma senza la sinistra ambiguità che dovrebbe far presagire la rovina. Anche la scena del sonnambulismo non convince del tutto.
Valido Antonio Di Matteo come Banco, voce ampia e ben timbrata, e convincente Antonio Poli come Macduff, che disegna un ritratto nobile e dolente.
Solidi gli altri comprimari, bene il Coro del Maggio guidato da Lorenzo Fratini, anche se talvolta penalizzato da movimenti scenici scoordinati e da una certa staticità che riduce l’impatto teatrale di pagine cruciali come “Patria oppressa”.
Musicalmente il livello rimane alto, grazie a un’orchestra di prim’ordine e a un cast di grande professionalità. Ma la regia di Martone, rischia di svuotare di senso i nodi tragici dell’opera: il potere, la colpa, la follia. Un teatro che pretende di essere “totale” ma che dimentica la parola di Verdi e la forza del silenzio.
Rimane l’onore di un titolo che a Firenze appartiene alla storia stessa del teatro, e lunghi applausi per questa seconda replica.