[rating=3] Riflettevo l’altra sera (ri)vedendo questo Falstaff, nel mio Gran Teatro San Carlo a Napoli, nell’edizione curata da Luca Ronconi a me così cara, al tempo che passa e fugge, al regista che ormai non c’è più (la regia qui è stata ripresa da Marina Bianchi), al caso che ha fermamente voluto ciò che nemmen sperando si sarebbe potuto realizzare. E così, rivedendo quelle formidabili pareti – distese di teli bianchi – che il tempo e l’incuria e le intemperie han provveduto a macchiare di ruggini e muffe, della scena disegnata da Tiziano Santi, e che descrivono spazi chiusi eppure al tempo stesso aperti – oh, quanto amava gl’indigesti e provocanti ossimori – universo che sempre si ripete eguale a se stesso pur nella profonda diversità degli ambienti, al gran letto, trionfante trono da cui regna incontrastato il vecchio impenitente, che domina l’immensità del palco per il resto in gran parte vuoto, se non per quelle macchine – perfetti ed oleati strumenti dell’esattezza meccanica – nere come eleganti marchingegni della perfezione ingegneristica del secolo tecnologico e costruttivista, rivedendo tutto ciò, non ho potuto che confermare ciò che già pensavo, esser questo Falstaff omaggio al secolo che, ormai, fu, al Novecento che s’apriva quando Verdi lo scrisse e che s’è chiuso or che Ronconi per la terza volta l’ha diretto, alle sue tormentate idee, a quella sur-realtà che pure tanto ha preso del secolo passato.
E come per il compositore di Busseto l’opera fu, per certi versi, non solo occasione di ricapitolare le forme musicali del secolo romantico, dalla sonata alla fuga, dal madrigale alla canzone, ma pure, nel breve artifizio di due-tre note, richiamar le grandi opere sue, in una continua citazione d’Aida e Otello, di Traviata e Trovatore, così pure per il regista, sembra, questo Falstaff, buona occasione per citar se stesso e certe sue teatrali provocazioni e innovazioni: cosa sono, quei meccanici locomotori e velocipedi neri, se non citazioni irriverenti delle macchine e dei cavalli che fecer tanto parlare all’epoca d’Orlando? Ed ecco, allora, i due vegliardi, entrambi alla ricerca d’un tempo ritrovato e mai perduto, impegnati tutt’e due in una riflessione sulla vecchiaia – loro vecchi alle prese col vecchio John – e sulle sue convenienze e inconvenienze, come a voler scrivere un trattatello al modo degli antichi, un de Senectude indirizzato ai posteri che verranno.
Così, non stupisce il gioco al ritrarsi, la grazia dell’inesausta esplorazione dell’essenziale, l’eleganza della ricerca, in ambedue, della misura giusta e della schiettezza della linea sobria e raffinata piuttosto che del ricciolo aggraziato: appartiene, il superfluo, ad altre età, sembran dire, noi siamo seri. Inutile pretendere, dunque, un realismo estraneo a questa ricerca nell’interiorità, inutile cercar la Giarrettiera dalle fumose pareti di legno, inutile gli elementi dell’architettura Tudor nella casa di Ford, così come il duetto, l’aria strappapplausi, l’acuto sovrano nella partitura: è nell’animo d’ognuno, la Windsor di Verdi e Ronconi, luogo dell’anima e della mente, pensoso ambito dove attender con lietezza e levità del cuore sorella morte. Perché Falstaff è vecchio, forse stanco, e il suo continuo cercar la contiguità del letto è sintomatico, la gran quercia di Herne arriverà a sorprenderlo nel sonno, spossato dopo aver assaggiato la gelida acqua del Tamigi, a stento confortato da un buon bicchiere di vin caldo. Addormentarsi per sempre così, inventore e provocatore curioso, circondato dagli amici della vita, intonando l’ultimo coro, burlandosi della vita e della morte, è – chissà – ciò che ciascun desidera, perlomeno ciò che dovrebbe, sicuramente ci si sarebbe visto bene pure lui, il vecchio regista, seduto sul proscenio, a cantar tutti gabbati a se stesso e al mondo un’ultima volta ancora.
Accanto al regista, il direttore d’orchestra è certamente colui che dà il giusto tono alla rappresentazione e all’interpretazione d’un opera lirica: Pinchas Steinberg sa centrare l’obiettivo e dà lettura sapiente alla partitura, attenta ai particolari e alle voci degli interpreti, soprattutto nei delicati snodi in cui le diverse voci s’intrecciano a disegnare i modernissimi astratti contrappunti che donano eterna giovinezza all’opera. Nel ruolo del titolo ho ascoltato Elia Fabbian, baritono dalla voce e dalla presenza scenica davvero notevole ma che appariva sovente a disagio, massime nei toni gravi, così da risultare un po’ ruvido e rigido; Eva Mei è stata Alice di vaglia e classe, pur in un ruolo ben lontano dalla sua vocalità: figura, canto e resa drammatica ben al di sopra della media; Ford, nell’interpretazione di Stefano Antonucci, è apparso ben delineato musicalmente e scenicamente, pur se la voce è risultata non grandemente risonare al tono grave; Rosa Feola interpreta con gran sicurezza e verosimiglianza una Nannetta dalla gran bella voce; la voce del Fenton di Leonardo Cortellazzi è apparsa in gran forma, dall’acuto sicuro. Sempre preciso e determinante il Coro, diretto da Marco Faelli. Molti vuoti in platea; in compenso il pubblico tributa grandi applausi, alla fine, a tutti gli interpreti.
Eva Mei veramente brava. Nel fraseggio, nella tecnica, con quella boccuccia sorridente ma senza sguaiare. una signora del canto e della scena, femminile. la voce è bella e sonori i centri e le note basse. ma è il fraseggio ad incantare. Umile e brava. fra giancarlo