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La Grande Bellezza tra le crepe del testo

[rating=5] Un anno fa Paolo Sorrentino e Toni Servillo salivano sul palcoscenico del Dolby Theatre di Hollywood per ricevere l’ambita statuetta dorata, assegnata a La Grande Bellezza come miglior film straniero. La giusta chiusura di un cerchio per un film che ha fatto incetta di premi, e che ha così rivendicato lo sgarbo francese di assegnare una campanilistica Palma d’oro a La vita di Adele. Nei mesi a seguire la celebrità ha sommerso d’improvviso Paolo Sorrentino, incensandolo e glorificandolo, come solo il nostro Paese sa fare, innalzandolo a testimonial del made in Italy e di banali pubblicità. Del film è stato scritto e detto tutto, con commenti e chiose più o meno accalorate.
Oggi, spenti i riflettori e riavvolti i red carpet, gli amanti del film possono di nuovo assaporare, ancora più da vicino, i suoi dialoghi disillusi, nel libro omonimo scritto a quattro mani da Paolo Sorrentino e Umberto Contarello (Skira editore, pp. 224, € 15), scrittore e autore di sceneggiature memorabili tra cui Marrakech Express e This Must Be the Place.

La sceneggiatura dimostra ancora una volta la grande vena letteraria di Paolo Sorrentino, che dopo il cantante cocainomane Tony Pagoda di Hanno tutti ragione e la depressa rockstar Cheyenne di This Must Be the Place, ci consegna un affascinante, quanto malinconico scrittore fallito, il dandy Jep Gambardella de La grande bellezza.
Tre variegati personaggi accomunati dalla parabola del declino, come contrappasso al raggiungimento di un glorioso e remoto successo.

La forza dell’opera sta nei dialoghi e nelle didascalie, che nel libro abbondano, tanto da farlo diventare quasi un romanzo. Sorrentino oltre a indicare le inquadrature, i movimenti della macchina da presa e la soundtrack del film, sottolinea con una costellazione di gustose aggettivazioni i luoghi e gli stati d’animo dei caratteri.

Veste il miglior lino, ma lo porta come se non gli desse importanza. […] È un uomo di assoluta, esclusiva, inaudita bellezza. Possiede occhi di un blu cobalto che neanche Paul Newman. Un bel corpo ancora tonico rispetto all’età. Mani da suonatore d’organo. I capelli grigi gettati con nonchalance all’indietro come Helmut Berger. È il protagonista di questo film. Si chiama Geppino, ma nessuno lo chiama Geppino. Solo Jep.

Entriamo così nelle pieghe del libro, dove tra i solchi delle parole scopriamo il respiro dei personaggi e i loro pensieri reconditi, come Sorrentino li ha immaginati. Quello che nel film può sembrare superfluo, trova spessore e profondità nel testo, consegnandoci nuove chiavi di lettura. Seguendo i passi di Jep, che come un vero flâneur, vaga disilluso nelle prime luci dell’alba della città eterna, emerge la recherche proustiana del tempo perduto. Oltre a Roma, ai suoi monumenti e alla sua lenta e scandita decadenza, la grande bellezza per lui è qualcosa di invisibile e impalpabile; tremendamente legato alla giovinezza, quando si chiamava ancora Geppino e non era sbarcato nella capitale.
Jep è un re â la page, infarcito di benessere, che giunto a 65 anni non può più perdere tempo a fare cose che non gli va di fare. Un Charles Foster Kane (Quarto potere) alla ricerca inconfessata della sua Rosabella: quel giovane amore mai dimenticato che lo richiama a sè verso l’origine.

Un libro dai dialoghi lirici e rarefatti, con battute di grande sagacia, da gustare come un bicchiere di brandy. Una lettura esplorativa che svela ancor di più con la scrittura, il romanticismo e l’inquieta disillusione intrisa nell’opera.

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