[rating=5] Questa è la storia di un’avventura incredibile. Un’avventura dal triplice aspetto, perché è l’avventura di un gruppo di tredici Nani, uno Hobbit e uno stregone (e tanti altri), è l’avventura visiva di un’esperienza cinematografica senza eguali e, infine, è l’avventura (ancora in corso) di una trilogia che fin dalla sua fase di progettazione ha trovato più detrattori che sostenitori. Bilbo Baggins (Martin Freeman) continua il suo viaggio attraverso terre inesplorate e letali verso la Montagna Solitaria e, soprattutto, verso la piena affermazione personale. La presenza dell’anello e la sua presa sulla sua coscienza si faranno, però, sentire in maniera più marcata, come anche nel caso di Thorin (Richard Armitage), sempre più accecato dalla cupidigia e dalla bramosia dell’oro di Erebor.
Ma da dove cominciare? Da dove prendere le mosse per descrivere l’esperienza cinematografica de Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug? Forse è meglio partire da un anno fa, al tempo dell’approdo nelle sale del primo capitolo di una trilogia fantasy criticata e guardata a vista prima ancora di mostrarsi. Con Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato, Peter Jackson ha iniziato caparbiamente l’avventura – è il caso di dirlo – di un adattamento di un libro di poco più di 300 pagine in tre film in media di tre ore ciascuno. E ognuno rilasciato a distanza di un anno dall’altro, aggiungiamo. A sua “discolpa”, il regista neozelandese può dire di aver integrato la storia del libro pubblicato nel 1937 da J. R. R. Tolkien con le vicende contenute (non solo) nell’Appendice a Il Signore degli Anelli, con il fine dichiarato di rafforzare la continuità narrativa con la precedente trilogia. Continuità che, per essere salvaguardata, determina l’inclusione – leggi “intrusione” per i puristi – di personaggi che nella trama originale del romanzo non compaiono o che vengono nominati soltanto. Ne sono un esempio Legolas (Orlando Bloom) – grande protagonista de Il Signore degli Anelli e pertanto inserito “di forza” ne Lo Hobbit –, la sua compagna d’armi Tauriel (Evangeline Lilly) – “invenzione” di Jackson collante e catalizzatrice dell’azione – e Azog, l’Orco Pallido che nel primo capitolo ha svolto il ruolo dell’antagonista principale dell’eroe Thorin e dell’intera Compagnia.
È la solita vecchia polemica dell’obbligo morale (o analitico) di dover leggere il libro cui si ispira dichiaratamente un film prima di sedersi al cinema, diranno in molti. Un protocollo inflazionato, certo, ma che in questo caso dovrebbe essere preso seriamente in considerazione. Solo chi ha letto (bene) il libro del Professore può comprendere appieno, infatti, con quanta “fretta” Peter Jackson abbia liquidato personaggi come Beorn (Mikael Persbrandt) o i Goliant (Ragni Giganti), estremamente presenti e determinanti nell’opera letteraria. In questo senso La Desolazione di Smaug si presenta come un riuscitissimo “film di mezzo”: come Le Due Torri per la trilogia de Il Signore degli Anelli, anche questo secondo capitolo fa della ricchezza di riferimenti extra-romanzo la sua carta vincente per presentare al pubblico un prodotto quanto più compatto possibile, ottimizzando una struttura che si connota di effetti drammatici altrimenti non restituibili. Anche a costo di un “tradimento” evidente, che nell’ambito di un adattamento cinematografico dovrebbe apparire come un merito, piuttosto che come un reato. Tradimento che appare inoltre doppio, perché riferito, oltre che alla trama originaria, anche allo schema filmico cui eravamo stati abituati con le pellicole precedenti.
In questa opera Jackson ci mette di fronte innanzitutto a una durata minore (2 ore e 41 minuti) rispetto al suo standard base di tre ore (e qualcosa), e in aggiunta propone un finale a cliffhanger, vale a dire con un’interruzione brusca della narrazione in corrispondenza di un momento culminante (Smaug che si dirige verso la Città del Lago) che crea un forte effetto di suspense. Un meccanismo tipicamente seriale, seguito anche da altri film recenti (come Hunger Games: La Ragazza di Fuoco) e meno recenti (si pensi a L’Impero Colpisce Ancora), che testimonia l’inversione di rotta nell’interscambio tra cinema e serialità televisiva, con il primo che si ritrova a “copiare” dopo stagioni e stagioni di “saccheggio” compiuto dalla seconda. Un modo come un altro, insomma, di evitare quei tempi morti e quelle dilatazioni eccessive che tanto hanno inviperito i fan e i sempre presenti contestatori.E un modo come un altro, inoltre, di far correre la narrazione con un ritmo serrato e mozzafiato verso lo snodo di tutte le vicende parallele: l’uscita di Smaug dalle viscere della Montagna Solitaria e la Battaglia dei Cinque Eserciti.
E proprio il malvagio Smaug, che non nasconde il suo coinvolgimento nel più grande disegno di oscurità messo pazientemente in piedi dal negromante Sauron nel corso delle Ere, è il protagonista assoluto della seconda parte del film. Il suo dialogo faccione a faccia con Bilbo rappresenta senza dubbio il momento clou della pellicola. Da una parte un piccolo hobbit indifeso che ha trovato il coraggio di allontanarsi da casa fino a giungere al cospetto della calamità massima della Terza Era della Terra di Mezzo, dall’altra un drago descritto dallo stesso Tolkien come intelligente e micidiale, che grazie ad un’indovinata operazione assume (oltre alla voce) i movimenti di un attore in carne e ossa: Benedict Cumberbatch. Una vera e propria rivoluzione cinematografica, inaugurata al volgere del Nuovo Millennio con il Gollum di Andy Serkis (per questo capitolo responsabile della regia della seconda unità).
E se si parla di cast, non si può non notare la prova collettiva e individuale di attori bravissimi e perfettamente calati nei personaggi. Armitage dà vita a un Thorin più oscuro e tormentato, mentre Bilbo beneficia degli ormai proverbiali lazzi di Freeman, che si conferma sempre frizzante e prodigioso anche sul versante drammatico, autentica emanazione “a posteriori” del travaglio interiore provato anche da suo nipote Frodo ne Il Signore degli Anelli, che qui viene sapientemente accennato e subito colto dallo spettatore. Orlando Bloom calza a pennello (anche in senso letterale) i “vecchi” panni dell’elfo Legolas, al fianco di Lilly ammaliante per come riesce a restituire una doppia natura di elfo magico ed abbagliante e di guerriera determinata e capacissima. Il solito Ian McKellen, poi, dimostra come ogni lode a lui rivolta sia ormai superflua. Convincente anche Luke Evans nella parte di Bard, cittadino rivoluzionario e protettore autentico di un agglomerato controllato da un viscido e incapace Governatore (Stephen Fry). Certo, il merito è anche, e soprattutto, della sagacia sintetica e creativa della super squadra di sceneggiatori, composta, oltre che dal regista, da Fran Walsh, Philippa Boyens e Guillermo Del Toro.
Per quanto riguarda la colonna sonora, da sempre opera di Howard Shore ed elemento primario e di qualità assoluta del franchise, risulta in questo caso meno pregnante. Anche la canzone originale che accompagna i titoli di coda (I See Fire di Ed Sheeran) mal si conforma allo stile e allo spirito grave e solenne della storia. E parliamo, infine, dei tanto conclamati prodigi visivi che sembrano sfiorare la magia. La tecnologia Imax 3D High Frame Rate offre allo spettatore livelli di coinvolgimento e di nitidezza delle immagini assolutamente inediti, giudicate innaturali dalla maggior parte degli occhi, non abituati ai 48 fotogrammi al secondo. Il risultato è che i dettagli delle ambientazioni e dei costumi rivelano un’accuratezza a dir poco maniacale, che vale da sola il prezzo del biglietto, come si dice.
Azione, spettacolarità, coinvolgimento. Sono queste in definitiva le parole chiave per descrivere cosa è Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug. Eppure non bastano da sole. Perché tutto di questa fantastica avventura (la definizione da cui siamo partiti) è coinvolgente. E tutto è collegato, in maniera indissolubile. Il suo senso più profondo arriva direttamente al cuore del pubblico, proprio come i nostri eroi giungono nel cuore della Montagna. È la grande magia della Terra di Mezzo. “Dai più piccoli inizi” si può arrivare a grandi risultati. E siamo ancora a metà.