[rating=4] Da enfant prodige del piccolo borgo di Recanati a intellettuale bohémien in viaggio tra Firenze e Napoli: il romanzo di formazione del giovane bardo si sviluppa tra accenti gioiosi e malinconiche riflessioni; ma sempre ci stupisce per l’intensa vitalità che lo percuote. Un carattere più forte e volitivo di quanto la tradizione storiografica abbia mai descritto; avido, fino allo spasmo, di assaporare la vita, la gloria e la libertà.
Il film Il giovane favoloso è la poesia visiva con cui Mario Martone (Noi credevamo!) restituisce quella verbale di Leopardi. “Non è un film storico”, afferma il regista, ma “la storia di un’anima”.
Il poeta rinasce vivo, intenso e reale, grazie all’ottima e onesta interpretazione di Elio Germano (Magnifica presenza, La nostra vita), la cui mimica accurata restituisce una vasta gamma di chiaroscuri emozionali: curiosità malandrina, rabbia, atroce dolore. Fino a toccare l’apice nel dialogo con la Natura: sguardo in macchina, le vene del collo esposte e lo sguardo infuocato, l’attore parla con tale trasporto da non contenere la bava. Altrove il volto si distende in una calda beatitudine. Germano-Leopardi si pasce di ogni sobbalzo di vita: una mosca, un fiore che sboccia, la giovane che fila nella casa di fronte. Il poeta beve tutto, sente tutto, brama tutto. E lo celebra nella sua poesia.
È una vitalità instabile, a cui la camera partecipa: il quadro vacilla, insieme al cuore del giovane, al suo primo contatto con la bella e giovane filandaia. Una vitalità incontenibile, che spinge Germano-Leopardi a precipitarsi verso l’amico e mentore Pietro Giordani, giunto in visita a Recanati. Una vitalità avida, con cui il poeta scruta l’orizzonte in soggettiva: enunciazione silenziosa de L’infinito, mentre l’inquadratura si solleva e ricade al di qua di quella siepe “che il guardo esclude”.
Questa intima connessione tra vita e poesia si trasforma poi in voce fuori campo: quella di Germano che declama i versi del bardo o ne legge il carteggio con Giordani. È così, con immagini che illustrano ciò che la voce descrive, che scorre gran parte della gioventù di Leopardi. Poi un’ellissi di dieci anni e lo ritroviamo a Firenze, libero dall’oppressione dell’esigente padre Monaldo (Massimo Popolizio) che, come il padre di Mozart (frequenti i riferimenti ad Amadeus di Milos Foreman), esibiva pubblicamente i talenti del figlio e ne reggeva il destino.
Così i rapporti umani sono il centro della narrazione, soprattutto quelli col gentil sesso. Sin dall’inizio la figura femminile è carica di valenze opposte: da un lato la crudeltà, incarnata dalla madre, bigotta, oppressiva e incapace di mostrare indulgenza persino di fronte alla morte; dall’altro la tenerezza, impersonata dalla sorella Paolina (Isabella Ragonese), il cui affetto incondizionato accompagnerà Leopardi per tutta la vita.
È un contrasto che torna a riproporsi tra la bella Fanny Targioni-Tozzetti, che rifiuta le attenzioni di Leopardi per concedersi all’amico Ranieri, e Paolina, sorella dello stesso Ranieri, che per amore di questo decide di accudire, vita natural durante, l’infermo poeta.
Contrasto che torna, infine, a riassumersi nell’immagine della Natura: statua d’argilla dagli occhi blu e la voce della madre Adelaide che, indifferente e sublime, allontana da sé le responsabilità per le sofferenze degli uomini e, contemporaneamente, tende la mano a Leopardi.
Il film si compone di innumerevoli binomi oppositivi: prigionia (la biblioteca paterna) e fuga (fisica o mediante l’immaginazione), schiavitù e libertà, ambizione (di Leopardi) e umiltà (di Paolina come di altri), Umanità e Natura, l’ipocrisia del mondo intellettuale (che tutto conosce tranne l’animo umano) e semplice allegria del popolo (prediletto da Leopardi per la sua acre spontaneità), rivoluzione e conservazione, salute e malattia.
Fra tutte, la tematica più scottante riguarda la disabilità. Con grande realismo Martone fa emergere la prospettiva, poco nota, di chi accudisce un infermo: il binomio Leopardi-Ranieri mostra un malato esigente e caparbio contrapposto ad un florido giovane che rinunzia a tutto (come all’amore di Fanny) per accudirlo. Senza Ranieri e Paolina, che scelgono di condividere la disabilità di Leopardi, l’eccelso poeta non avrebbe potuto esistere.
Divisa è anche la colonna sonora che alterna il classico Rossini a brani di grande modernità del compositore Sasha Ring. Contrastata è la fotografia, che si centra sul binomio luna-candela, specchio del contrasto tra Natura e Ragione (illuminista). Frequenti, nella penombra simbolo di morte (altra persecuzione leopardiana), luci di color rosso acceso: una passione per la vita che arde sotto la cenere della malinconia. Finché è di fronte allo splendore dell’intera galassia che il poeta pare riconciliarsi con se stesso e portare a compimento il suo pensiero.
Ritorni stilistici di arte figurativa come reminiscenze di quadri fiamminghi (Vermeer) o macchiaioli (Telemaco Signorini) conferiscono spessore alla fotografia, mentre, verso la conclusione del film, è il gusto per l’immagine, per la pura cinematografia di Terence Malick (L’albero della Vita) che porta Martone a indugiare sulla maestà del Vesuvio, le cui immagini accompagnano i versi de La ginestra.
Una nota di colore: costretto nella casa paterna, Leopardi si ribella inveendo contro la “prudenza che ci agghiaccia”. Secondo un recente slogan, sostenuto dallo stesso Germano, sarebbe quella prudenza (e non il Leopardi) ad essere triste. Che anche Martone abbia voluto sollecitare lo spirito ribelle delle giovani generazioni?