Di fronte a delitti efferati, sentiamo il bisogno impellente di capire perché siano accaduti: cosa abbia spinto i colpevoli a quel comportamento, cosa si nasconda dietro la violenza brutale e la reazione inconsulta. È una pulsione interiore, dettata dalla ricerca spasmodica di scoprire dove si celi il Male – per capirne le motivazioni, comprenderne le manifestazioni, difenderci da esso, sconfiggerlo. E, forse, per coglierne il nascosto, perverso fascino.
La città dei vivi, in scena al Teatro Fontana dal 17 al 26 novembre (produzione di Elsinor Centro di Produzione Teatrale, TPE Teatro Piemonte Europa, Teatri di Bari, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro di Sardegna), è una libera trasposizione drammaturgica dell’omonimo romanzo di Nicola Lagioia, firmata da Ivonne Capece – regista, videoartista e direttrice del teatro.
La vicenda si ispira a un omicidio di rara efferatezza: nel 2016, a Roma, un giovane viene ucciso da due coetanei in un appartamento, senza motivi apparenti. Ma il fatto di cronaca è solo un pretesto per un’indagine poetica, simbolica e provocatoria sul rapporto dell’uomo con la violenza, la perversione, il male.
Roma, personaggio dietro le quinte
Riaffiora il Pasolini di Ragazzi di vita, con una Roma “città morta abitata da vivi”, invasa dai topi, degradata nonostante la sua storia millenaria. Qui, però, la violenza non è strumento di sopravvivenza nato dalla miseria, bensì frutto di pulsioni autodistruttive, ossessioni torbide, segni di un degrado morale che corrode tutto. E da cui sembra impossibile redimersi.

Roma resta acquattata dietro le quinte, come un’entità viva: un mostro tentacolare e oscuro, capace di attrarre e al tempo stesso fagocitare chi vi si avvicina. Una metropoli che vibra di desideri indicibili, illusioni fragili, fallimenti inevitabili.
Gli assassini non conoscevano la vittima; non c’è movente familiare o passionale, né fine dimostrativo come in certi atti terroristici. Manca qualsiasi spiegazione logica. Quando la violenza è fine a se stessa, ci angoscia di più – anche perché riconosciamo che quelle pulsioni covano nell’animo di ognuno.
Dramma senza catarsi
Lo spettatore è travolto da questa idea, preso da smarrimento, ma non trova pace in uno scioglimento razionale: qui non c’è catarsi. Il dramma dà volto all’indicibile non per normalizzarlo, banalizzarlo o giustificarlo, né per esaurirlo, ma per esporlo in modo crudo, senza retorica. Sarà poi lo sguardo del pubblico – mai innocente – a farlo proprio, modellando realtà e morale secondo le proprie lenti.
Lo spettacolo raggiunge un equilibrio eccellente: fusione armonica tra performance dal vivo e presenze virtuali (proiezioni, ologrammi), sostenuta da una drammaturgia efficace che intreccia narrazione e confessione intima. I corpi fisici diventano linguaggio potente.
Sotto la regia attenta di Ivonne Capece, gli attori in scena – Sergio Leone, Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi, Cristian Zandonella – si spendono con intensità. Meritevoli di menzione anche i numerosi contributi video, la scenografia, gli effetti luce e le musiche.