Home Teatro “Un gabbiano”, viaggio da Kiev per giungere dentro noi stessi

“Un gabbiano”, viaggio da Kiev per giungere dentro noi stessi

[rating=5] Ritorna in scena dall’8 al 17 ottobre al teatro Sala Uno di Roma per il secondo anno consecutivo “Un gabbiano”, rivisitazione, del giovane e più che promettente attore e regista Gianluca Merolli, del dramma “Il gabbiano”di Anton Checov, una riflessione sull’arte e il teatro, l’amore ed i rapporti familiari.

“Con la forza dei suicidi e la poetica dei disperati, abbiamo raccontato la storia cechoviana come più ci è sembrato giusto, mettendo al centro dell’indagine un viaggio che parte da Kiev per giungere dentro noi stessi” sottolinea lo stesso regista. Il tema è quello che ritornerà in tutti i lavori successivi dell’autore russo: la tragedia di un’umanità delusa dalla vita inutile. Il titolo dell’opera viene da un accostamento simbolico: quello fra l’ignara felicità di un gabbiano che volando sulle acque del lago viene stroncata dall’insanabile indifferenza del giovane Konstantin (Gianluca Merolli) e la sorte di una fanciulla, Nina (Francesca Golia) che sulle rive del lago stesso si lascia “cogliere” da Trigorin (Ivan Alovisio) un letterato di una certa fama il quale, pur senza cattiveria, approfitta della sua femminile smania di aprire le ali, la porta via con sé a fare l’attrice, la rende madre di un bimbo, che però muore subito, e la lascia infine tornare distrutta nella casa di una volta. Qu c’è un altro uomo che la ama da tempo, il giovane Konstantin appunto, anche lui scrittore, che sogna l’arte e la gloria. Ma la madre di lui Irina (Anita Bartolicci), una celebre attrice, disprezza l’inconsistenza delle fantasie che lui va componendo e Nina non vuol sapere più nulla di lui, sicché Konstantin sentendosi fallito, si uccide. Tra i personaggi si inseriscono, in una sorta di “circolo di non amore”, anche Mascia (Giulia Maulucci) che ama senza essere ricambiata Konstantin e che poi sposerà per quieto vivere il medico Medvedenko (Fabio Pasquini), e il fratello di Irina, Sorin (Pippo Cangiano), l’unico che mostra un po’ di affetto sincero e pieno di comprensione per suo nipote.

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Questa trama offre il pretesto per la rappresentazione di una società di illusi, aspiranti, invano, a partecipare al gusto dell’esistenza che li respinge. I personaggi sono destinati a fallire o per lo meno a vedere fortemente ridimensionate le proprie ambizioni, e qui si potrebbe pensare al fallimento come ad una componente possibile della creazione artistica (forse sì).

Merolli porta sulla scena in modo sublime questo intrigo lineare nella funzionale forma di una piatta e stanca conversazione di uomini e donne ciascuno in preda ai propri tormenti ed affanni, i quali più che dialogare fra loro ripetono ciascuno la propria idea fissa, la propria angoscia e la propria sconfitta. Non ci sono eroi ed eroine che lottano, quando inizia la rappresentazione lo spettatore quasi avverte che la sconfitta è già avvenuta e percepisce che i personaggi non hanno volontà, sono dei vinti a priori dalle avverse fatalità e che il loro dramma è la condanna a trascinare un’esistenza grigia come era ieri e come sarà domani.

La loro è una morte cosciente di uomini e donne nel cui animo c’è un accorato desiderio di vita, ma il loro è inevitabilmente il dramma delle speranze deluse. E ne è un emblema il tormento di Konstantin a cui, nonostante il successo gli arrida e le sue ambizioni siano appagate, questo non basta e per sua stessa ammissione ciò che scrive rispecchia il senso di morte che egli si porta dentro.

Ma “Un gabbiano” è anche una profonda riflessione sull’arte e sulla scrittura in una sorta di rimandi del testo alla metateatralità che si racchiude nell’affermazione :”Non si può vivere senza teatro” e nella necessità di trovare “forme nuove” e in questo Cechov fu assolutamente un rivoluzionario, costringendo gli attori a fare qualcosa di diverso da quello che avevano sempre fatto, uno sforzo maggiore per dare spessore al personaggio. Ed il sottotesto è curato   abilmente nella rivisitazione di Merolli, ossia emergono i pensieri, i desideri, le emozioni che non sono nello scritto, perché in una regia, oltre alla adesione al testo, c’è una “poesia” di cui tener conto.

Cechov ebbe modo di affermare che ne “Il gabbiano” ci sono cinque “pud” (tonnellate) di amore, ma amore non corrisposto, infatti questo è, in definitiva, il dramma dell’amore negato, cercato, tradito, disilluso…..e particolarmente intensa è la scena fra la madre Irina ed il figlio Konstantin in cui i due attori impersonano le debolezze e le potenzialità affettive dei personaggi che interpretano.

Il pubblico è sospeso fra le ombre di un teatro architettonicamente unico nel suo genere e nudo come uno scheletro, che rappresenta la vita come nei sogni, dove i personaggi sulla scena si confondono con manichini ombra e lo spazio viene sfruttato in modo ingegnoso ed accurato: il lago è il reale e visibile completamento del palco ed anch’esso luogo di morte.

Una menzione di merito va fatta anche alle coreografie di Martina Grilli, ai costumi di Claudio Di Gennaro, alla scenografia di Alessandro Di Cola e alle musiche (una ardita ed originale scelta di brani anni ’40 e ’50) di Luca Longobardi.

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