[rating=4] C’è una sensazione d’impazienza al Cortile del Bargello, venerdì 26 giugno. Attesa per lo spettacolo Lettera al padre di Kafka, curiosità di scoprire come sarà l’adattamento teatrale di uno dei più splendidi “scarafaggi” della letteratura mondiale.
Gianluigi Tosto ha l’aspetto corporeo azzeccato per portare avanti la pièce. Non troppo alto, coordinato, proporzionato, un aspetto pensoso, quasi inerme. Perfetto per sillabe che sanno di supplica e rabbia, angoscia e oscenità. Qualcuno – Carmelo Bene – ha sostenuto che la vera pornografia letteraria non è De Sade, ma Franz Kafka. Scrittura che è una spinta continua, una spinta stanca, per raggiungere un piacere ripetuto a oltranza di cui si sa tutto e un dolore che si conosce alla perfezione, come quello che allaga in Lettera al padre. Se Tennessee Williams è ossessionato dalla figura materna, per Kafka il padre è l’oggetto del desiderio e allo stesso tempo la camera di sevizie.
La lettera in questione, scritta realmente dall’autore nel 1919 ma pubblicata postuma nel 1952, è di per sé magnifica. Il peso cosmico di sentirsi un insignificante e inutile pulviscolo nell’universo davanti al gigante paterno, esplode qui come un concerto sordo. La regia, di Massimo Masini, riesce bene a manovrare lo spavento e il terrore, che se ne stanno al loro giusto posto, senza mai invadere, lasciando parlare a pari merito anche l’inevitabile comico che scotta, o il ricordo del ridicolo. Non c’è legittima difesa nello scontro con l’invisibile padre.
Gianluigi Tosto si muove in scena lasciandosi stupire dalla scena stessa e dal cambio di luci (opera di Samuele Batistoni), che squarciano e sovvertono il monologo di un bambino lontano, spaventato dai feroci metodi educativi di un padre-padrone autoritario e bizzarro, incomprensibile.
Quanta tenerezza nelle parole kafkiane. E come risuona bene in questa versione la paura, sentimento oscuro che prende il comando del nostro corpo da piccoli, e non lascia più andare. Lui lo sapeva bene.
Uccidere il padre: se in Dostoevskij l’atto non smentisce l’azione, in Kafka le pulsioni restano a sonnecchiare, vengono concepite di nascosto. Ecco il dissolvimento del soggetto per diventare un oggetto, da usare e massacrare. Non c’è ribellione. C’è un tavolo, come quello della scenografia, una natura morta che il personaggio cerca di sfasciare, invano.
L’opera di Kafka è impregnata di senso della vergogna, che qui è sfruttata e superata per andare incontro al bello, materializzato dal canto, da una risata cinica, dal tentativo di vestirsi con l’abito del proprio matrimonio. Quando si è riusciti a entrare in quei vestiti sconosciuti, ci si accorge che mancano le scarpe. La colpa – dell’infelicità, incapacità, insoddisfazione – ricade sempre sul padre, che dà la vita e la toglie con un rimprovero, uno schiaffo morale, un annichilimento continuo. Il personaggio vaga tra l’età infantile e l’età adulta come può, scrivendo una lettera di accuse che forse non invierà mai, ennesimo atto mancato, ennesimo grido spento.
Il corpo sinuoso di Gianluigi Tosto stupisce, anche se sovente si lascia prendere da movimenti scenici a tratti forzosi. Ma, per il resto, qualche parte di noi è stata masticata ben bene dalla sua recitazione animalesca, elegante.
Pubblico in piedi.