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Una specie di Alaska: a Binasco’s polar(oid)view

[rating=4] Valerio Binasco ci ha abituati a visioni ben poco “polari” soprattutto dei testi shakespeariani, ma qui nel pezzo pinteriano “Una specie di Alaska”, lo spettacolo è rarefatto, sottile, come la bruma che esce dalle bocche al primo freddo. Lei è Deborah e non si ricorda quanti anni ha, lui è il dottore-cognato (Alessandro Accinni) che la cura da 29 anni e poi c’è Pauline (Orietta Notari), la sorella piccola che adesso è vecchia e sembra così diversa. Un’opera minuta, leggera, tutta retta dall’estro scenico della Bertelà, già musa del buon Paravidino in Exit, fantastica nell’altalenarsi fra ironiche tenerezze infantili e profondissimi ricordi di donna.

Bella la semplice ma efficace scenografia (Nicolas Bovary… Nome quanto mai evocativo) e i costumi (Catia Castellani) che sembrano proprio un frame da polaroid anni ’70. C’è poco Pinter e poco Binasco in questa resa scenica, entrambe talenti eccentrici e audaci, ma è la materia stessa che forse richiede queste tinte “soft”. Racconto tratto da “Risvegli” del neurologo-scrittore Oliver Sacks, portato in scena dall’ahinoi compianto Williams, dove un medico parla della scoperta di un farmaco miracoloso in grado di risvegliare pazienti in stato catatonico. Eccola allora la nostra Deborah che smarrita si risveglia in un corpo ormai maturo ma con l’animo di bambina, perché il suo cuore non era morto, era solo “congelato”, in una specie di Alaska appunto, dove ogni tanto ha saputo perdersi chi conosce la noia e la frustrazione umane.

 

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